venerdì 3 agosto 2007

Parte diciassettesima

Le biografie narrano che Galgano infigge la spada per adorarla come croce; qualcuna afferma che ciò dipende dal fatto che Galgano non ha nulla con cui realizzarla, né rami, né altro e già questo é perlomeno strano in un luogo circondato da boschi.
Un’insolita versione dell’infissione é apparsa, invece, sul quotidiano il Giornale, nello spazio dedicato al santo del giorno, a firma di Rino Camilleri.
Il racconto é talmente originale e diverso da tutto quanto ho letto sull’argomento, che ritengo opportuno riproporlo.
Vi si narra che
?Galgano abbia avuto la vocazione nel sonno, mentre si riposava tra un combattimento e l’altro. Destatosi, pensò di aver sognato e proseguì il suo cammino. Ma cominciò ad sentire caldo, sempre più caldo. Si slacciò l’elmo, ma, dopo poco, dovette toglierselo. Poi la corazza, poi la cotta di maglia. Niente, sempre peggio. Rimasto alla fine completamente disarmato e col cavallo che penosamente lo seguiva al passo, Galgano cominciò a sospettare di essere finito nel bosco di qualche mago. Impaurito, si raccomandò al suo protettore San Michele, l’arcangelo guerriero. Questi gli apparve e gli comandò di disfarsi della spada, l’unica cosa che, per prudenza, aveva ancora indosso. Galgano la sfilò e la gettò lontano. Ma l’arma, compiute due giravolte, andò a conficcarsi profondamente in una roccia?.
Mi mancavano lo strip-tease medievale e la spada rotante, fra l’altro trovo questa versione molto più divertente di tutte le altre, anche se, naturalmente, non ha alcun fondamento di verità e potrebbe persino essere considerata un po’ irriverente.
Rolando da Pisa non ha l’assillo del tempo, come noi moderni, e può scrivere in tutta calma, pesare bene le parole, riflettere a lungo sui simbolismi, sui messaggi liturgici, sulla costruzione del racconto.
Inserisce e mescola con cura ogni ingrediente per ottenere un prodotto rigorosamente garantito.
Sarebbe materia di indagine filologica, troppo ardua per le mie scarse conoscenze, perché sono convinto che Rolando vada interpretato, che sia possibile individuare chiavi di lettura e schemi ben precisi nell’uso della terminologia, nella sequenza cronologica del racconto, nei pesi assegnati ai diversi eventi.
In tutte le biografie si può avvertire la volontà di ?orientare? il culto, evitando con cura di porre l’accento sugli aspetti più spettacolari della leggenda, che pure avrebbero giovato alla sua diffusione.
Per quanto ne sappiamo, lo stesso Rolando potrebbe avere attinto a qualche fonte scritta, poi andata perduta o addirittura eliminata per cancellare verità scomode.
Qualunque sia l’ipotesi da accreditare, e dubito che lo sapremo mai, l’unico dato certo é che Rolando può decidere cosa scrivere e ne é ben consapevole.
In realtà il nodo decisivo di tutto l’enigma, quello che andrebbe sciolto per primo, é individuare almeno una data certa in tutta la vicenda.
Riuscire a datare con sicurezza la Rotonda, la spada, gli arti dell’invidioso, magari con l’esame del DNA, per avere un punto di partenza, una data che permetta di riesaminare le nostre attuali conoscenze, anche solo per confermarle se si rivelassero esatte; poi andrebbe ripreso l’immenso lavoro di analisi e di indagine su tutto quanto la leggenda e la storia ci hanno consegnato.
Del resto, anche la figura di Rolando é incerta e la datazione della sua biografia avviene in virtù delle informazioni in essa contenute, non disponendo neppure dell’originale, ma solo di trascrizioni successive.
Solo per il mio gioco, amo pensare che possa essere stata redatta nel 1221, un anno in cui, peraltro, non succede nulla di particolarmente significativo ad eccezione, forse, della morte di San Domenico di Guzman che precede di soli cinque anni quella di San Francesco.
I due ordini monastici da loro fondati, tra l’altro, saranno di gran lunga i più importanti e potenti dei secoli successivi, superando in potere e fama tutti quelli che li avevano preceduti.
Il bisogno di certezze dove regna il caos é grande ed anche gli autori moderni non aiutano a dissolvere le nebbie, ma spesso contribuiscono ad aumentare i dubbi come quando omettono notizie utili per i profani che, forse, i dotti scrittori considerano scontate e banali.
Alla regola non sfuggono neppure Galgano e le sue vicende.
Ad esempio, tornando agli affreschi del Lorenzetti, tutti nominano la figura di Santa Gertrude; non si tratta affatto di una figura secondaria, poiché appare nell’affresco centrale in posizione di notevole rilievo.
Infatti, osservando con attenzione il dipinto e unendo i suoi personaggi chiave con linee immaginarie, Gertrude risulta perfettamente simmetrica a Galgano ed i loro capi sono gli angoli alla base di un triangolo con il volto della Vergine al vertice.
Ebbene, nessuno ha pensato di specificare di quale Gertrude si tratti, forse perché tutti dovrebbero saperlo, senz’ombra di dubbio alcuno.
Io invece confesso la mia ignoranza ed anche in questo caso sono ricorso all’aiuto del solito dizionarietto dei Santi, dove di Gertrude ne appaiono solo tre, ma, ironia della sorte, ognuna presenta caratteristiche che, in vari modi, potrebbero collegarla a Galgano.
La prima é Gertrude di Altenberg, nata nel 1227, e affidata, fin dall’infanzia, al monastero premonstatense di Altenberg dove morì nel 1297.
Il suo culto venne approvato nel 1348, solo tre anni dopo gli affreschi di Lorenzetti.
La seconda é Gertrude di Nivelles, figlia di Pipino il Vecchio, maggiordomo del re d’Austrasia.
Vissuta dal 626 al 659, fondò, con la madre, ospizi per i pellegrini e un monastero a Nivelles.
Il suo culto divenne molto popolare e accompagnato da numerose leggende.
Veniva invocata contro le infestazioni dei topi, ma, soprattutto, favoriva la riconciliazione dei nemici, i quali, in segno di pace, bevevano il cosiddetto filtro di S. Gertrude.
Il legame con Galgano é molto più labile, ma potrebbe ritrovarsi nel tema della pacificazione.
La terza, ed é probabilmente questa quella raffigurata da Lorenzetti, é Gertrude la Grande.
Nata nel 1256 e deceduta nel 1302 nel monastero di Helfta in Sassonia, a cui venne affidata a soli cinque anni, fu educata alla scuola di Metilde, divenendo esperta di miniatura, di canto e di lettere.
Dopo una prima visione all’età di ventisei anni, si votò totalmente alla preghiera ed alla contemplazione, con frequenti estasi, accompagnate dalla presenza di stigmate.
Nel monastero di Helfta, fino al XIV secolo, le monache portavano l’abito bianco dei cistercensi e ne osservavano le usanze, pur non essendo effettivamente affiliate all’ordine.
Gertrude divenne famosa anche per il fenomeno dello ?scambio mistico del cuore? ed é probabilmente per questa sua particolarità che appare nell’affresco proprio nell’atto di donare il cuore di San Bernardo alla Vergine.
Ulteriore conferma, ve ne fosse ancora bisogno, che nulla é lasciato al caso, ma che tutto concorre a trasmettere messaggi degni di imprimatur.
Non si tratta di voler trovare l’intrigo, la manipolazione, il messaggio ermetico, la verità nascosta a tutti i costi, sempre e comunque, bensì é solo il tentativo, operando in assenza di prove certe e materiali, di favorire l’approfondimento di qualunque ipotesi, anche la più astrusa.
Non sarebbe la prima volta e neppure l’ultima in cui la storia si rettifica o si modifica totalmente alla luce di nuove rivelazioni, magari ritenute, in partenza, inverosimili o impossibili.
Rifiutare l’approfondimento sulla base di preconcetti o di presunte e incontrovertibili verità storiche, dimostra scarsa volontà di affrontare il problema.
Fermarsi alle apparenze sarebbe invece ancora più riduttivo e privo di sbocchi.
Un conto é il fascino misterioso della leggenda e un altro la verità storica, accertata e accertabile.
La seconda, però, diviene irraggiungibile se non si indaga con obiettività e a fondo anche sulla prima, dove peraltro é lecito e doveroso non porsi limiti di sorta.
Ben vengano quindi i dubbiosi, anche quelli incolti, folli, assurdi.
Il dubbio stimola, si insinua, agita, spinge alla ricerca di risposte, non permette di essere facilmente liquidato se possiede anche una sola, minima parvenza di credibilità.
Niente deve essere trascurato, poiché tutto concorre alla composizione finale, compreso il più anonimo ed oscuro tassello.
Proprio perché, da un certo punto della vicenda in poi, niente é più accaduto per caso e, anzi, di ogni avvenimento possiamo conoscere motivazioni e scenario.
Ecco che allora diviene lecito porsi domande, anche apparentemente marginali, come chiedersi se Lorenzetti abbia seguito un preciso disegno geometrico nell’affresco centrale, dove sembra di vedere triangoli e quadrati sovrapposti, esagoni, stelle, poligoni, al cui interno sono collocati tutti i personaggi rappresentati.
La perfezione geometrica del dipinto é tale da non lasciare dubbi sulla sua intenzionalità; tutto rende omaggio alla geometria e alle sue regole e, ovunque, ricorrono il tre e il quattro: nelle aperture, negli ovali dei profeti, nel numero dei personaggi, nulla sembra sfuggire alla legge dei numeri.
Per comprendere quale livello di importanza potessero assumere i numeri ed il loro valore simbolico, é sufficiente ricordare l’opera che, più di ogni altra, é stata voluta, progettata e realizzata in onore dei numeri: Castel del Monte, edificio di incredibile interesse e fascino, dove astrologia, astronomia, matematica e scienze naturali si fondono dando origine a quella costruzione di rara bellezza che Federico II commissionò ai suoi architetti e mastri carpentieri nel 1240, ispirato dal famoso ?flos?, il fiore geometrico disegnato su pergamena dal grande matematico Leonardo Bigallo di Pisa, detto il Fibonacci, ed in seguito regalato all’imperatore svevo.
Sarà un caso anche questo, ma Federico II stesso, che nel corso del suo regno emetterà tre decreti riguardanti l’abbazia di San Galgano, é un devoto di San Michele, al punto di scegliere proprio il 29 settembre, giorno del santo, per inaugurare solennemente, nel 1224, lo ?Studium Neapolitanum?, ovvero l’Università di Napoli di cui Pier delle Vigne stese l’atto di fondazione.
Così anche il grande imperatore svevo, che non aveva mai potuto incontrare Galgano di persona, essendo nato tredici anni dopo la sua morte, entra nell’immenso vaso dell’enigma, non tanto per il suo interessamento ai luoghi del santo ed alle loro fortune, quanto per i riferimenti culturali e la contemporaneità con il periodo dei suoi primi biografi.
Dopo anni di avversione, devo riconoscere che le date sono determinanti.
Nel 1220 avviene l’unico incontro tra Federico II e San Francesco nel castello di Bari, con il famoso episodio della tentazione del santo da parte di una delle più belle cortigiane, inviata proprio da Federico con il proposito di dimostrare che anche la santità si sarebbe piegata al richiamo della carne.
Il 20 dicembre di quello stesso 1220, il sovrano svevo aveva scritto e promulgato le sue prime leggi nel corso di una grande ?assemblea per il buon governo del Regno? che, dal nome della località ospitante, divennero note come le Assise di Capua.
In esse venivano azzerati tutti i privilegi ed i poteri fino ad allora concessi nel regno, si ripartiva da zero e nasceva una nuova idea di stato centralizzato fino a quel momento sconosciuta.
Per tutti i suoi biografi, Galgano infigge la sua spada nella notte di Natale del 1180.
Nella versione dei Romanzi della Tavola Rotonda, che si ispira direttamente al ?Lancelot-Graal?, detto anche ?ciclo vulgato o in prosa? e redatto, anch’esso, intorno al 1220, Jaques Boulanger (1879-1944) scrive:
?La vigilia di Natale, tutti i baroni del regno di Logres andarono a Londra e tra di essi Antor, con Keu e Artù...tutti assistettero alla messa di mezzanotte, poi alla messa del giorno. E mentre la folla usciva dalla chiesa, risuonavano grida di stupore; una grande pietra tagliata si trovava nel centro della piazza e sorreggeva un’incudine di ferro in cui era infissa una spada fino alla guardia... E Artù sfilò senza fatica la spada e la porse all’arcivescovo che intonò a piena voce il Te Deum Laudamus?.
La spada appare dunque proprio il giorno di Natale anche se, in questa versione, Artù deve dimostrare più volte di essere il prescelto ed estrarla per ben cinque volte dall’incudine, l’ultima delle quali a Pentecoste.
L’arma, inoltre, non é più infissa nella roccia, ma appunto in un’incudine di ferro, più simile a come l’immaginiamo noi oggi e com’è stata rappresentata nel film a disegni animati di Walt Disney.
Pur con tutte le sue innumerevoli varianti, il tema di fondo é, però, sempre lo stesso ed il Natale vi irrompe con sempre maggiore sacralità, grazie anche alla consacrazione del presepio, invenzione francescana in perfetta sintonia con il suo tempo, lo stesso in cui appaiono le prime biografie di Galgano.
Il simbolo trionfa, la sua efficacia é indiscussa; grazie ad esso, ad uno ad uno, passano e si affermano i principi di fondo di una fede che pretende di regolare ogni aspetto della vita dell’uomo.
Dal momento del loro insediamento a Monte Siepi, i cistercensi hanno sempre gelosamente custodito la memoria, i luoghi, le reliquie, senza mai cercare la facile notorietà che poteva derivare loro dallo sfruttamento del miracolo della spada.
Neppure allora si poteva considerarlo un miracolo qualsiasi, eppure la sua singolarità é sempre stata nascosta nel groviglio simbolico delle biografie dove, oltretutto, Galgano appare quasi come l’oggetto passivo di un supremo e incontestabile potere.
Non dispone neppure del libero arbitrio, patrimonio che dovrebbe essere esclusivo dell’umana gente, poiché San Michele dapprima invita, poi ordina ed infine obbliga Galgano alla scelta eremitica.
Non basta il primo sogno, ne occorre un secondo e nemmeno questo é sufficiente dal momento che, alla fine, é il cavallo a decidere dove arrestarsi.
Due sogni e un cavallo, ancora un possibile gioco con i soliti numeri, l’ennesima parentesi di lucida follia, anche se il tema é serio e meritevole di attenzione.
L’insistenza con cui si ricorre al simbolismo numerico nell’agiografia galganiana continua, comunque, a stupirmi. Nessuna azione sfugge alla regola.
Due sogni, tre invidiosi, tre perentori inviti di San Michele a non lasciare l’eremo, tre parti in cui viene spezzata la spada, due improvvisi arresti del cavallo, due carpini, tre inviti a rinsaldare la spada; potrebbero essere solo coincidenze, casualità senza alcun valore, eppure non riesco a sfuggire alla sensazione che ogni affermazione, fatto, evento narrato, sia stato a lungo pensato, elaborato, steso in modo da risultare il più conforme possibile ai dettami teologici dell’epoca.
Pur partendo da questa affermazione, Galgano presenta, però, anche caratteristiche poco ortodosse, come se l’intera vicenda fosse un nuovo abito indossato direttamente sul vecchio.
Per quanto i sarti si siano adoperati con zelo, non hanno potuto nascondere del tutto il primo vestito, ma solo riadattarlo e abbellirlo.
Nelle pieghe di queste contraddizioni, nelle piccole sfumature, negli impercettibili errori o, semplicemente, in ciò che non appare del tutto conforme al pensiero e ai dogmi del tempo, é forse possibile rintracciare indizi di preesistenti culti o, addirittura, di centrali eretiche che occorreva neutralizzare con ogni sistema.
Tutto servirebbe, almeno, ad aumentare la conoscenza di un fenomeno come quello che viene riduttivamente chiamato catarismo e che, invece, appare estremamente più vasto e variegato.
Spesso si tende a raggruppare indistintamente sotto questo nome chiunque, in vario modo, si opponesse allora alla presenza sempre più invadente della Chiesa nella vita di ogni persona.
Liquidato in poche righe o pagine nei testi scolastici, che sono, per forza di cose, estremamente superficiali e lacunosi, questo movimento meriterebbe uno studio molto più approfondito ed un approccio meno distratto, soprattutto per i suoi aspetti sociali e di costume, più che per quelli teologici.
Non é un caso se impero e papato ritrovano una comunione di interessi, dopo decenni di aspri conflitti, proprio nella lotta alle eresie, principalmente per il loro ruolo destabilizzante e per l’ostilità verso le gerarchie di buona parte di questi movimenti.
Del resto, la storia ha nei loro confronti lo stesso atteggiamento che, da sempre, viene riservato ai vinti di cui si cerca sempre di cancellare anche la memoria storica.
Non a caso, infatti, quel poco che sappiamo sui Catari lo dobbiamo esclusivamente agli scritti dei loro irriducibili persecutori.
Non risulta che esistano documenti originali di matrice catara, escludendo forse il testo del rituale che definiva la cerimonia del Consolamentum, pervenutoci in due versioni, una latina databile a prima del 1235/40 e una provenzale del periodo 1250/80.
Per queste ragioni, un fenomeno che raggiunse dimensioni tali da porre in discussione l’egemonia religiosa della chiesa cattolica in molte regioni, é ancora così poco conosciuto.
Eppure, già nel 1184 la decretale ?Ad abolendum? emessa a Verona, stabiliva la scomunica anche per ?conti, baroni, rettori e consoli delle città e degli altri luoghi? che non si fossero impegnati nella repressione antiereticale e infliggeva la stessa pena a ?Catari e Patarini e coloro che, mentendo, falsamente si chiamano Umiliati e Poveri di Lione, Passagini, Giosefini, Arnaldisti?.
Poco dopo, il papato inasprì ulteriormente le normative contro gli eretici, minacciando di criminalizzare chiunque, in vario modo, li favorisse o non partecipasse alle attività repressive.
Usando le parole di Grado Giovanni Merlo: ?L’obiettivo successivo fu di far accettare in pieno ai detentori dei poteri costituiti l’orizzonte di ortodossia e la connessa strategia antiereticale? (Eretici ed eresie medievali - Il Mulino).
Ogni processo di revisione storica, oltre che obbligatoriamente tardivo, é, per forza di cose, estremamente lungo e laborioso, tanto più difficile quanto più sono radicati i luoghi comuni che devono venire demoliti.
E’ curioso, peraltro, che proprio un santo stimoli e quasi favorisca una migliore conoscenza dei ?nemici della Chiesa?, di uomini e donne, laici e religiosi, nobili e plebei alla ricerca di verità diverse, di modelli originali, di valori alternativi, che hanno osato muoversi anche in aperto contrasto con la più potente delle istituzioni del tempo. Quando Rolando da Pisa scrive, costoro non sono altro che infedeli, una mala pianta da estirpare, tanto più pericolosi quanto più sono riusciti a darsi un’organizzazione e a fare proselitismo.
Infatti: ?il Catarismo non rimase un movimento di idee relegate in gruppi isolati, ma si diede una strutturazione istituzionale per chiese, diocesi e diaconie, costituendosi come antichiesa alternativa a quella romana e realizzando una vasta, intensa e duratura diffusione? (L. Paolini - Eretici del Medioevo).
Se la lotta anticatara é stata, fino ad un certo punto, scontro dottrinale e teologico, alla fine del XII secolo, diviene crociata militare e invito alla soppressione di ogni diversità.
I Catari della Francia meridionale, chiamati anche Albigesi dalla città di Albi, una delle loro roccaforti, furono annientati dalle forze congiunte di poteri ecclesiastici e laici, prelati, conti, baroni, con un esercito composto, si dice, da 20.000 cavalieri e 200.000 fanti.
Le ostilità si aprirono nel 1198/99 e proseguirono per molti anni con ogni genere di atrocità.
Roghi di Catari ebbero luogo nel 1200 a Troyes, nel 1211 a Lavaran e proseguirono poi, sommandosi a quelli comminati dai Tribunali dell’Inquisizione, per tutto il XIII secolo e oltre.
Da un lato la chiesa cattolica, dall’altro chiunque ne discuta in qualsiasi modo la supremazia, tutti accomunati nella condanna di principio da chi rifiuta, ormai aprioristicamente, ogni tipo di dialogo e di confronto.
Le ragioni di questo processo, naturalmente, hanno poco a che fare con la fede in quanto tale; si potrebbe quasi affermare che le vicende del XII secolo hanno influenzato e determinato non solo gli aspetti politici, ma, anche e soprattutto, quelli spirituali e teologici.
Poco alla volta l’Europa intera é stata cristianizzata, mentre il potere civile riconosceva quasi ovunque a quello religioso una sorta di supremazia almeno ideologica; alla fine del XII secolo non esistono più regni pagani in Europa se non a nordest e nel sud della Spagna.
L’eresia catara diviene così un nemico mortale proprio quando inizia ad intaccare anche le fila del potere laico, da sempre serbatoio di risorse per la Chiesa che, senza di esse, difficilmente avrebbe potuto svilupparsi così capillarmente e con il grande dispiego di forze messo in campo.
Permettere al fascino dell’eresia di sottrarre adepti dal proprio stesso recinto sarebbe stato l’inizio della fine, devono aver pensato e temuto le gerarchie cattoliche.
Le questioni teologiche altro non furono che il pretesto per cancellare un progetto che, insieme a proclami grossolani e un po’ ingenui, aveva in sé interessanti ipotesi e curiose proposte di vita.
Devo ringraziare Galgano anche di avermi fatto incontrare i Catari.
Prima pensavo che fosse una parolaccia, una specie di insulto, faccia da cataro, vai a lavorare brutto cataro; clandestini, extracomunitari medievali, minoranze discriminate come ebrei, negri, terroni, omosessuali.
A Galgano devo anche la convinzione che sia necessario alzare ulteriormente il velo su quei cento anni così decisivi, perché potrebbero ancora rivelarci numerose sorprese.
Esattamente come accade al nostro santo, dove storia e leggenda si mescolano e, a volte, si confondono, anche per il periodo centrale del Medio Evo, accanto a certezze ormai incontestabili, sopravvivono vaste aree di oscurità, zone dove ci si può ancora trovare di fronte a tesi superate, se non totalmente errate, a veri e propri falsi storici, ad una deficitaria conoscenza di fatti e avvenimenti.
Anche da questo punto di vista il XII secolo rappresenta un guado, un punto di svolta decisivo per la comprensione non solo dei suoi stessi meccanismi, ma anche per quelli dei secoli precedenti e successivi. E non solo!
Il processo di rinascita dell’Occidente, dopo la dissoluzione dell’impero romano e la breve parentesi carolingia, affonda, proprio nel XII secolo, le sue radici più profonde e, sebbene vi sia ancora tantissimo da conoscere e scoprire, nessuno ormai dubita più di questo.
Nei miei voli pindarici, nei sogni ad occhi aperti, nei deliri della mia mente ormai preda di questo vortice, ho persino pensato di divenire una sorta di paladino del XII secolo.
Quella che può sembrare una pazzia, ha in realtà, un senso profondo nel bisogno urgente che qualcuno si prenda cura del patrimonio di un periodo così speciale dal momento che, almeno per quanto ne so, nessuno lo sta ancora facendo.
Rimane moltissimo da fare ed occorre fare presto.
Immagino i miei prossimi anni occupati a cercare, nella certezza che vi siano molte pagine da riscrivere, nuovi angoli di osservazione per quello che riteniamo di conoscere già.
Quanti piccoli borghi, frazioni, comuni, città italiane potrebbero trarre benefici non solo dalla rivalutazione del XII secolo, ma, anche un po’ enfaticamente, dalla sua moda?
Il prossimo secolo, cento anni per trecentosessantacinque giorni, più quelli bisestili, sarà ricchissimo di anniversari, celebrazioni, rievocazioni di quanto accadeva novecento anni fa, al punto di avermi fatto pensare alla realizzazione di un vero e proprio almanacco del XII secolo come strumento di conoscenza minima di quell’epoca. Forse così, qualcuno in più si accorgerebbe di quale immenso patrimonio si tratta, schiacciato com’è, tra i fasti dell’impero romano e quelli rinascimentali, tra la civiltà greca e la grande stagione del Settecento, confinato ancora, per l’immaginario collettivo, nel buio della barbarie, rappresentato troppo spesso con atmosfere da day-after, come giungla disumana e incivile, con una iconografia imposta, soprattutto, da una chiesa divenuta egemone, ma sposata, troppo a lungo, anche dal mondo accademico.

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