venerdì 3 agosto 2007

Parte sedicesima

Galgano non é solo un nobile e un cavaliere; é anche, o meglio, diviene, un eremita.
Quello eremitico é un movimento ben presente nello sviluppo del cristianesimo fin dalle sue origini, che ritrova slancio e grande diffusione proprio nel periodo successivo all’anno Mille.
E’ un movimento che sfugge alle tendenze centralizzatrici ed é anche per questo che la Chiesa lo osserva con una certa diffidenza e, se non lo ostacola apertamente, certo non lo favorisce, operando anzi costantemente per il rientro dei singoli nelle strutture ecclesiastiche istituzionali.
L’argomento richiederebbe molto più spazio e attenzione poiché, come afferma anche Pacaut nel suo volume ?Monaci e religiosi nel Medioevo? edito da Il Mulino, la maggior parte delle iniziative di tipo eremitico ebbe carattere ambiguo e raramente sfociò in creazioni veramente originali.
Spesso, dopo alcuni decenni, le nuove fondazioni si allinearono all’ordine benedettino o a quello cistercense, oppure si trasformarono in capitoli regolari, abbandonando del tutto l’originaria vita eremitica.
Esattamente come accade a Monte Siepi dopo la scomparsa di Galgano.
In Italia, il fenomeno eremitico non aveva mai cessato di esistere, anche perché ispirato da modelli orientali, soprattutto nelle regioni meridionali dove si praticava la liturgia greca, retaggio della dominazione bizantina.
Anche nel resto della cristianità si manifestò presto un nuovo entusiasmo per la vita eremitica che così, nel periodo a cavallo tra XI e XII secolo, poté annoverare personalità di spicco come Roberto d’Arbrissel, Gerardo di Sales, Stefano di Thiers, Bernardo di Tiron.
In Toscana il movimento eremitico era già ben radicato, grazie alo sviluppo di esperienze come quelle degli eremi di Camaldoli e di Vallombrosa, fondati rispettivamente da Romualdo nel 1027 e da Giovanni Gualberto nel 1039.
L’Ordine monastico di derivazione eremitica più noto, soprattutto in Italia, é senza dubbio quello dei Certosini, fondato da san Brunone intorno alla fine dell’XI secolo o forse proprio nel 1100, che ebbe però uno sviluppo più lento e una minore diffusione del quasi contemporaneo ordine cistercense.
Nell’Italia del sud, esperienze quasi parallele si possono, invece, considerare quelle dei cenobi di Montevergine, fondato da Guglielmo di Vercelli e quello di Pulsano sul Gargano, sorto per volontà di Giovanni di Matera.
Da quest’ultimo dipesero diversi monasteri, anche in zone molto lontane da quella di massima espansione, come San Salvatore di Trebbia, fondato nel 1143 o come San Pietro di Vallebuona sorto nel 1149 o, anche, San Michele di Guamo, vicino a Lucca nel 1156 e San Michele di Pisa nel 1155.
Favorite dalla monarchia normanna, le due fondazioni del sud prosperarono rapidamente e si conformarono all’osservanza della regola benedettina, dopo la scomparsa dei fondatori che non avevano lasciato disposizioni in merito.
Così, in breve, una fitta rete di cenobi, monasteri, ospizi, ricopre tutta l’Europa e ad essa concorrono esperienze spirituali di ogni genere.
La rete pulsa, comunica, trasmette, riceve.
Quando Galgano compie il suo viaggio terreno, la diffusione e la presenza di congregazioni monastiche é tale da lasciare allibiti per ampiezza e capillarità.
Cluniacensi, Cistercensi, Premonstratensi, Gilbertini, Grandmontani, Certosini, Vallombrosani, solo per elencare i più conosciuti, dispongono ormai di centinaia di fondazioni che vanno a sommarsi alle strutture diocesane e ai capitoli cattedrali, anche se sarebbe errato considerarle come un corpo omogeneo e compatto.
Certo é che la loro presenza e diffusione non può non aver influenzato profondamente l’intera società cristiana.
Perso in questo immenso oceano spirituale, Galgano non é che una piccola, singola, insignificante goccia d’acqua, eppure, a volte, come per un punto Martin perse la cappa, é proprio la goccia a far traboccare il vaso e l’Italia del XII secolo é un enorme vaso ricolmo di sperimentazione e di esperienze di rilevante originalità.
Nelle biografie di Galgano non si nasconde la sua scelta eremitica, anzi, in qualche misura, essa viene elevata ad attuazione della volontà divina, trasmessa da Michele arcangelo e, quindi, incontestabile.
Però ci si affretta ad affermare che Galgano non ha inteso porsi al di fuori della Chiesa, ma che, al contrario, il suo é stato un percorso attraverso l’espiazione e la preghiera, proprio per poterla raggiungere, liberato nello spirito e nella carne.
Può sembrare una questione secondaria, soprattutto per chi non la osserva a fondo e invece, é una delle questioni centrali del processo di separazione dei laici dalla Chiesa.
Problematiche mai risolte, portatrici di diaspore e lacerazioni di cui Galgano é in qualche modo coagulo, epicentro.
Forse, in quest’ottica, é condivisibile l’idea che Monte Siepi rappresenti una sorta di centro cosmico, del resto sottolineata dalla circolarità della Rotonda.
Tutti gli edifici religiosi, in qualsiasi fede, sono sempre stati eretti con precise valenze simboliche, a partire dal loro orientamento, vuoi rispetto al sole o agli astri.
La Rotonda, invece, proprio per la sua caratteristica di fondo, non richiede alcun orientamento, ma si propone, essa stessa, come centro irradiatore.
Quello che mi ha affascinato, fin dal primo istante, sono la semplicità e l’essenzialità dell’edificio, anche se oggi occorre immaginarselo privo di tutte le successive aggiunte.
Nulla a che vedere con gli immensi spazi e le smanie di grandezza di molti luoghi di culto.
La dimensione umana é il suo punto di riferimento; il raccoglimento, l’atmosfera ascetica, ne sono la diretta conseguenza.
Il contrasto con ciò che rimane dell’abbazia, é stridente e violento.
Ho sempre provato disagio, per non dire fastidio, di fronte allo sfarzo ed alla maestosità di molti edifici religiosi; non ne ho mai condiviso la filosofia, né, tantomeno, compreso il bisogno.
Penso che, anche se fossi credente, troverei ripugnante sperperare risorse per glorificare dio, invece di destinarle ai non abbienti, ad opere meritevoli, alla ?carità cristiana?, in maniera forse più consona al messaggio evangelico.
Devo però anche ammettere che, in questo modo, non avremmo più dinanzi a noi opere d’arte di inestimabile bellezza e questa rimarrà, per me, una contraddizione irrisolvibile.
Come molti altri, prima e dopo di lui, Galgano lascia dietro di se tutto, rinuncia ai beni terreni e a qualsiasi proprietà materiale e, come si suol dire, abbandona il secolo.
Anche in questo caso siamo di fronte ad un’immagine dl forte contenuto simbolico, così evidente da non meritare spiegazioni.
Per la società medievale, priva di miti come li intendiamo oggi, niente sportivi, cantanti, top model, attori, figure come quelle di eroici condottieri o di santi miracolosi rappresentavano gli unici modelli di vita a cui poter fare riferimento.
Per questo era necessario che fossero ?omologati? nei loro ruoli, che attraverso la loro vita o la loro leggenda, potesse affermarsi un modello conforme a quello voluto dai loro promotori.
Il culto popolare non conosceva confini e capitava così di incontrare santi venerati ad enorme distanza dal loro luogo di origine.
Anche le notizie di fatti miracolosi non avevano frontiere e viaggiavano molto più rapidamente di quanto oggi comunemente si crede.
Il caso di Tommaso Becket é, a questo proposito, alquanto significativo.
Ucciso il 29 dicembre 1170 nella cattedrale di Canterbury da quattro sicari, ispirati forse da re Enrico II Plantageneto, ma questa ipotesi non venne mai provata, fu canonizzato in tutta fretta da Alessandro III nel 1173.
La sua fama fu immediata ovunque al punto che, a migliaia di chilometri di distanza da Canterbury, divenne patrono della città di Mottola in Puglia che, nel 1102 aveva avuto anch’essa il suo vescovo assassinato nella cattedrale durante la guerra con i Tarantini.
De Tracy, uno dei sicari dell’arcivescovo, pentitosi del gesto compiuto insieme con Fitz-Urce, Moreville e Breton, si era gravemente ammalato durante il pellegrinaggio espiativo verso la Terrasanta e si era dovuto fermare a Cosenza, contribuendo così a diffondere anche nel sud le notizie ed il culto del santo.
Culto che divenne in breve europeo, grazie al successo immediato dei pellegrinaggi a Canterbury.
Qui avveniva la distribuzione della famosa acqua di san Tommaso, composta dal sangue del santo sparso sul pavimento della chiesa, diluito in una vasca d’acqua.
Un monaco della Christ Church era addetto alla diluizione, affinché il prezioso liquido non venisse mai a mancare, e alla confezione di piccole ampolle da distribuire ai pellegrini.
L’acqua guariva i malati, ridava la vista ai ciechi, manifestava i ladri e spegneva gli incendi.
Compie ancora miracoli san Galgano? Avvengono eventi straordinari nei luoghi del suo culto?
Io personalmente non ne ho notizia e ritengo anche questa un’ulteriore stranezza del nostro eremita.
In un paese che, tutt’oggi, conserva testimonianze tangibili di episodi miracolistici, in un Italia dove pullulano corpi di santi incorrotti dal tempo, reliquie che trasudano manna, ostie che sanguinano, liquidi che solidificano, effigi impresse sui più svariati materiali, lacrimazioni di statue e dipinti, il cavaliere di Chiusdino sembra sonnecchiare ozioso, forse in attesa dell’occasione propizia per stupire nuovamente il mondo intero.
Eletto proprio nello scorcio finale del XII secolo, papa Innocenzo III (1198-1216) può affermare nella bolla di canonizzazione di santa Cunegonda, avvenuta nel 1200, che ?il merito senza i miracoli e i miracoli senza il merito sono entrambi insufficienti perché un santo venga venerato dalla Chiesa militante?.
L’Europa intera é talmente legata al culto dei santi che un numero quasi infinito di città, comuni, frazioni, borghi, ne porta i nomi. In Italia, solo per citarne qualcuno tra i più famosi e rappresentati, esistono una ventina di san Michele, Lorenzo, Marco, Vito, Giacomo e una quarantina di san Giorgio, Giovanni, Martino, Pietro.
Anche la santità di Galgano é avvolta nel mistero.
A volte santo, a volte beato, non compare più nel Dizionario dei Santi.
Come in ogni cerchio che si rispetti, si finisce sempre per ripassare dal punto di partenza, con la sensazione, alquanto reale, di aver girato in tondo.
Tondo é il mondo, tonda la Rotonda, tutto gira, girotondo.
Quest’idea di movimento mi riporta nuovamente ai due numeri che ormai considero galganiani: 12 e 21.
Mi sembra di vedere l’uno che orbita intorno al due, passando dal dodici al ventuno, dopo aver compiuto un percorso di 180°.
Un sistema astrale in cui il due é il pianeta e uno é la sua luna.
Due, uno più uno, la somma più elementare, il sistema binario, il bipolarismo, il bene e il male, il buono e il cattivo, il buio e la luce, la vita e la morte.
Uno, ognuno di noi, l’individuo, il singolo, l’unico, il diverso, l’amico, il nemico, il maschio, la femmina, il principio, la fine.
Tramontate le grandi ideologie di massa, con la sola eccezione delle fedi religiose, stiamo divenendo sempre più individui, singoli organismi monocellulari, proprio nell’era della clonazione.
Ovviamente, questo con i numeri non é altro che un gioco, neppure troppo coerente, forse più simile ai deliri di un malato mentale che ad un ragionamento sensato.
Però é anche la risultante di molte stravaganti coincidenze che ornano la vita e la leggenda di Galgano e che, casualmente e senza alcun filo logico, le collegano al nostro tempo, dilatandone il mistero.
Continuando a frugare nel passato ritrovo il mio presente.
Molto più che semplici tracce: abitudini, costumi, usanze, tradizioni di cui, in molti casi, si é persa la memoria storica ma sono rimaste le pratiche quotidiane.
Favole, filastrocche, poesie, preghiere, orazioni, un immenso patrimonio di cultura popolare é legato al culto dei santi, utile specchio del popolo senza voce, del suo mondo, così spesso lontano dai santuari del sapere e del potere.
Anche in questo universo sarebbe necessario indagare per ritrovare testimonianze che null’altro ha potuto tramandare, ma la vastità dell’impresa mi induce per il momento a rinuciare e a farne oggetto di eventuali prossime fatiche.
Chissà cosa ci riserverà il terzo millennio.
Se consegneremo Ocalan ai Turchi, se gli USA deporranno Saddam, se i Serbi faranno i buoni, se le borse asiatiche crolleranno e se l’uragano Mitch si porterà via l’America Centrale, se vivremo nello spazio o finiremo arrostiti dall’effetto serra.
Meglio votarsi ai santi anche oggi, in fondo sono buoni, fanno i miracoli, permettono di sognare come antichi feticci di speranza.
?Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi? recita un antico detto popolare, ma, senza voler essere irriverente e poco rispettoso di chi vi crede, ritengo il culto dei santi una delle manifestazioni più variopinte e stravaganti di tutta la fede cristiana.
E’ praticamente impossibile immaginare il suo sviluppo senza il loro contributo e la loro esistenza.
Galgano é il raccordo tra un’idea di santità antica e la sua moderna evoluzione, eppure nei numerosi testi che affrontano l’argomento, egli appare raramente e, quando lo fa, é sempre per rivestire un ruolo marginale, legato più agli aspetti folcloristici della sua leggenda che a questioni teologiche e agiografiche.
Quasi nessuno analizza la sua figura dal punto di vista della storia della santità.
Liquidato troppo frettolosamente, come prodotto della manipolazione cistercense o come diretta emanazione di interessi locali, raramente lo si esamina inserito nel quadro evolutivo del culto dei santi.
Da questa angolazione, Galgano appare come un punto d’arrivo e di partenza, come il precursore di tendenze che si affermeranno in epoche successive, ma, soprattutto, considerando che la sua azione si svolge proprio a cavallo tra la pace di Venezia (1177) e quella di Costanza (1183), egli può addirittura essere rappresentato, attraverso la lettura simbolica dell’infissione, come il testimone di un’apparente, ritrovata, stabilità.
Se, come afferma Regine Pernoud nel suo ?La Vergine e i Santi nel Medioevo?:?...ancora nel XII secolo é anzitutto l’adesione popolare a fare il santo?, nel caso di Galgano assistiamo ad una convergenza di interessi, per certi versi unica e, comunque, alquanto insolita.
Qui non ci troviamo dinanzi alle invocazioni di enormi folle di fedeli, almeno non vi é traccia di aggregazioni così numerose, che normalmente precedono, accompagnano e determinano la proclamazione dei santi.
Le coincidenze sono davvero troppe perché si possa pensare che Galgano sia realmente quello che presentano le biografie.
Ogni supposizione diviene indimostrabile quando si cercano riscontri oggettivi, ma cercare elementi di verità nelle fonti agiografiche diviene a sua volta fuorviante se non si afferma anche che esse sono, sostanzialmente tutte, il risultato della manipolazione congiunta di una figura a tutt’oggi inesistente, o meglio non esistente, nel senso tradizionale del termine.
Soprattutto, é decisivo considerare che nessuna delle biografie di Galgano vede la luce prima del 1220 circa e che, pertanto, ognuna andrebbe analizzata a partire almeno da questo contesto.
Infatti uno sguardo attento al Concilio del 1215 é, ovviamente, alquanto significativo e, nuovamente come avviene dall’inizio di questo gioco, numeri e coincidenze riappaiono per incanto per trasportarci dinanzi al IV Concilio Lateranense che altro non é che il dodicesimo dalla nascita del cristianesimo.
Ed é proprio nei suoi oltre 70 canoni che possiamo, in parte, ritrovare le basi dell’agiografia galganiana.
Una partecipazione senza precedenti segnò l’inizio dei lavori.
Era l’11 novembre 1215. Più di 70 patriarchi e arcivescovi, circa 400 vescovi, 800 abati e gli ambasciatori dei sovrani europei erano riuniti a conclave ed era anche presente l’allora ventunenne Federico II di Svevia.
I canoni approvati, che entrarono integralmente nel ?Corpus iuris canonici?, affermavano, tra l’altro, il dogma della ?transustanziazione?, imponevano ai cristiani di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno e confermavano la condanna delle eresie, compresa quella dei seguaci di Gioacchino da Fiore e delle sue profezie sull’avvento della terza età del genere umano.
Quando si redigono le prime biografie del santo, come già detto intorno al 1220, é facile pensare che esse risentano del clima generale scaturito dal Concilio e dall’azione antieretica di inizio secolo, che vede l’annientamento e lo sterminio di Catari e Albigesi tra il 1208 e il 1229.
E’ in questo scenario, profondamente diverso da quello in cui Galgano viveva e operava, che si fissa la sua immagine agiografica.
E forse, per comprenderne appieno il senso e il messaggio, é necessario compiere a ritroso il viaggio analitico delle fonti.
Paradossalmente, così come Galgano inverte il gesto simbolico attraverso un percorso che culmina nell’infissione invece che nell’estrazione della spada, analogamente si può procedere in senso contrario, partendo dalle fonti scritte fino a tornare in cima a Monte Siepi.
Quando il primo biografo ufficiale ne scrive la leggenda, i cistercensi sono saldamente insediati a Monte Siepi, dove, da pochi anni, due o tre al massimo, sono iniziati i lavori di costruzione della grande abbazia nella piana sottostante.
Rolando da Pisa, questo é, o dovrebbe essere, il nome del monaco cistercense che redige la ?Legenda beati Galgani confessoris?, dispone di una spada infissa nella roccia, forse degli atti del processo di beatificazione, sicuramente di una tradizione orale, di un luogo di culto e, probabilmente, di una buona biblioteca di base.
Il suo dev’essere stato un delizioso gioco letterario, con quell’amore per il dettaglio e la coerenza che emerge da numerose opere dell’ordine cistercense.
Qui, il mio pensiero corre all’abbazia di Staffarda, alla meticolosità e alla precisione con cui é stato realizzato un edificio incredibile, con il preciso obiettivo di ingannare l’occhio umano.
Ogni elemento dell’abbazia é asimmetrico, ma questa particolarità sfugge ad un primo colpo d’occhio, a cui tutto risulta, invece, armonioso ed equilibrato.
Motivo di questa originale scelta architettonica é dimostrare la fallibilità umana e ricordare la varietà del creato.
Ancora oggi é difficile comprendere le tecniche di costruzione e i calcoli adottati per realizzare un edificio che sfida le regole fisiche e infrange secolari tradizioni edili.
E’ questo gusto per il simbolo, fin nel minimo dettaglio, nato nel silenzio e nella preghiera, nella disponibilità di tempo per la contemplazione, lo studio, la ricerca, che mi porta ad immaginare Rolando da Pisa, mentre si accinge a scrivere la prima biografia di Galgano di cui abbiamo notizia.
Egli esamina con cura tutti gli elementi di cui dispone: sono passati quarant’anni dalla scomparsa del santo; Chiusdino ha vissuto un periodo di intense vicende ed ormai gravita stabilmente nell’orbita senese da quando, il 22 maggio 1215, i suoi abitanti hanno dovuto giurare fedeltà alla Repubblica di Siena.
Rolando non ha fretta, ha tutto il tempo che desidera, consulta i volumi conservati nella biblioteca: testi liturgici, scritti dei Padri della Chiesa, opere di varia natura, filosofiche, giuridiche, mediche.
Quando scrive, e sembra che lo faccia nel periodo tra il 1218 e il 1227, deve realizzare una biografia che sappia amalgamare leggenda, mito, storia e modelli di vita, rimanendo fedele ai dettami dell’ordine e della sua Regola.
Deve quindi elaborare, rifinire, adattare quanto esiste per renderlo coerente con lo spirito cistercense, esaltandone, al contempo, sia gli aspetti miracolistici che quelli teologici e liturgici.
E’ un lavoro difficile, impegnativo, irto di ostacoli; non può discostarsi troppo da quanto si narra, con l’obbligo, però, di edulcorare le parti meno ortodosse, più simili a culti atavici che a quelli propugnati dalla chiesa.
Deve costruire una figura che avvalori e confermi, come naturale conseguenza, l’appartenenza del santo e del luogo all’ordine monastico di cui egli stesso é adepto.
Conosce molto bene la ?materia? arturiana poiché, fin dalle sue prime apparizione letterarie, é divenuta presto patrimonio culturale dell’ordine, soprattutto nei suoi aspetti più legati al culto eucaristico.
La questione della ?transustanziazione?, come abbiamo già visto, é una delle questioni teologiche di fondo alla fine del XII secolo e nei primi anni del XIII, ed anche la trasformazione dell’epopea arturiana si compie proprio quando: ?Robert de Boron rimodella tutto sulla base della concezione di triplice mistero tradotta in termini di elevato misticismo cristiano? come afferma Jessie L. Weston nel suo lavoro ?Indagine sul Santo Graal? edito da Sellerio.
Sappiamo anche che il picardo Robert de Boron scrive intorno al 1200 il ?Roman de l’Estoire du Graal? e con lui ?la féerie celtica...scompariva per dar luogo al più tranquillizzante panorama cristiano, ispirato a scritti apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull’Eucaristia? (F. Cardini - M. Introvigne - M. Montesano, ?Il Santo Graal? - Giunti).
Questo é il contesto nel quale Rolando da Pisa scrive la leggenda del Beato Galgano ed ecco che egli può, o avrebbe potuto, inserire scientemente in essa quegli elementi che più la collegano ad uno dei più grandi fenomeni letterari di tutto il Medioevo.
Forse l’incarico é stato affidato a Rolando proprio perché egli, meglio di altri, ?mastica? l’argomento, ne ha maggiore conoscenza, provenendo da Pisa, dove più facilmente circolano uomini e notizie, per il ruolo di potenza navale e commerciale della città e, anche, per la sua posizione geografica che ne faceva una tappa obbligata di ogni discesa verso Roma.
Immagino Rolando, silenzioso di fronte alla spada, mentre cerca di amalgamare mentalmente quanto ha appreso dalla tradizione orale con quello che conosce sul Graal.
Come tutti i visitatori dell’eremo, compresi quelli odierni, é affascinato dalle sue atmosfere; l’abbazia a cui egli appartiene, si fregia della santità di quel luogo, nessuno pensa più di dubitare della sua appartenenza all’ordine cistercense o di vantare presunte paternità sulla figura del santo.
Il problema di Rolando, semmai, é quello di trovarsi di fronte ad un gesto opposto a quello arturiano, ad un’infissione anziché ad un’estrazione.
Ed é forse per questo che la leggenda appare parallela, ma di opposta direzione; una sorta di andata e ritorno, come per quasi ogni aspetto dell’intero enigma.
Il viaggio di Galgano dev’essere osservato a ritroso, come avviene con la moviola, gesto per gesto, proprio come se l’infissione fosse un goal.

Nessun commento: