lunedì 23 luglio 2007

Parte quindicesima

Anche nella leggenda che rimanda alla fondazione del santuario di Mont Saint-Michel, conservata in una pergamena del X secolo, la simbologia numerica sembra giocare un ruolo paragonabile a quella galganiana, con l’uso più o meno degli stessi numeri chiave.
Vi si narra che il vescovo Aubert, dopo tre apparizioni di San Michele a cui non crede, pensando di essere ingannato da Satana, e dopo altri eventi miracolosi avvenuti sul Monte-Tombe, nome con il quale era noto quel luogo fino all’VIII secolo, inviò suoi legati al santuario pugliese del Gargano con il compito di ottenere qualche reliquia del Santo che lì era apparso per la prima volta.
Poi fece edificare la chiesa nel posto che un ulteriore evento miracoloso aveva indicato come sede delle sue fondamenta e vi insediò una collegiata di dodici canonici.
Persino partendo da questo splendido gioiello di architettura del nord della Francia, ritroviamo scenari familiari, con gli stessi protagonisti che ormai fanno parte dell’universo galganiano.
Ecco così, che l’abate più illustre di Mont Saint-Michel fu Robert de Thorigny, che condusse il monastero ininterrottamente per 32 anni, dal 1154 al 1186 e fu anche consigliere di Enrico II Plantagento.
Tra le mura della sua abbazia, transitarono in quegli anni, quasi gli stessi della vita di Galgano: Ugo, arcivescovo di Rouen; Luigi VII, re di Francia; ovviamente Enrico II, re d’Inghilterra, oltre a due futuri papi, vari vescovi e numerosi abati.
Alla sua morte lasciò più di centoquaranta opere, tra cui un’interessante ?Historia Montis Sancti Michaelis?.
Possiamo ritrovare il medesimo peso simbolico del numero dodici persino presso il popolo nomade degli Indiani Sioux per i quali la consacrazione di un altare del fuoco deve avvenire con il seguente rituale:
?Su questo sacro luogo, Colui Che Si Estende cominciò a comporre l’altare. Prima prese un bastoncino, indicò con esso le sei direzioni e infine tracciò un piccolo cerchio al centro: questo per noi rappresenta la casa di Wakan-Tanka (il Grande Spirito). Quindi, con lo stesso bastoncino, dopo aver indicato una seconda volta le sei direzioni (6+6=12 é per questo che si ripete l’operazione??) Colui Che Si Estende tracciò una riga dal punto ovest alla circonferenza del cerchio interno. Ne tracciò un’altra da est alla stessa circonferenza e, analogamente, una terza da nord e una quarta da sud. Costruendo l’altare in questo modo si vede che tutto porta al centro, o meglio, vi ritorna; e il centro, che é Wakan-Tanka, é si in quel punto, ma noi sappiamo che in realtà é in ogni dove? (Alce Nero - La Sacra pipa - Rusconi).
Persino nella Ka’ba, uno dei più antichi santuari del mondo, si compie un rito che si completa con una simbologia numerica non dissimile dalla nostra.
La Tawâf, ovvero il rito della circumambulazione del santuario che esprime chiaramente la relazione esistente tra lo stesso e il movimento celeste, viene eseguita sette volte, secondo il numero delle sfere celesti, tre volte di corsa e quattro a passo normale.
Qual’é la necessità di differenziare questo percorso proprio in tale modo?
Forse perché é l’unico il cui prodotto dia 12?
Difficile riprendere il discorso da dove l’avevamo interrotto senza sentirsi un po’ smarriti.
A volte, la vastità dell’argomento mi provoca sensazioni poco stimolanti che vanno dal senso di impotenza ad uno stato di confusione da overdose; in altri momenti, invece, mi sento come un bambino che vorrebbe bruciare tutte le tappe, o come uno straniero in terre sconosciute.
Avverto la mancanza di esatte terminologie, trovo la mia scrittura ancora troppo infantile, soffro per la mia impreparazione e, forse, temo eccessivamente il giudizio altrui.
Galgano ha vinto anche sulle mie emozioni e al diavolo le indecisioni, i dubbi, i timori, lo sconforto, la frustrazione.
Nessuno, credo, potrà accusarmi di non essere uno storico e nemmeno un filosofo, di non essere preparato a sufficienza o di avere spacciato per verità assolute semplici intuizioni, curiose stranezze, intriganti avvenimenti.
Nessuno potrà, ne sono certo, attribuire a queste pagine altra intenzione da quella abbondantemente dichiarata di voler essere solo uno stimolo in più alla ricerca e allo studio, quelli necessariamente ?seri? e veri, di cui Galgano ha ancora assoluto bisogno e, con lui, tutto il suo secolo.
Procediamo, dunque, nell’esposizione dei tratti più significativi della sua figura.
Che tipo di cavaliere sia Galgano non é dato sapere, se inquadrato in qualche struttura militare, ma non si hanno, naturalmente, notizie di una sua partecipazione ad azioni belliche, o se ?errante?, secondo la moda del tempo.
Poco a poco, la cavalleria diviene casta, costruisce i suoi modelli comportamentali, elabora i suoi codici, definisce le regole.
A Chiusdino, in via della Cappella, esiste un edificio che si ritiene essere stato la casa natale di Galgano.
Chissà se muoveva veramente da qui per le sue scorribande nella regione? Se era inserito in un gruppo di cavalieri del borgo, se prestava corvè e in che occasioni?
Il primo dei grandi ordini cavallereschi era nato nel 1099, quando il monaco amalfitano frà Gerardo, che dirigeva una chiesa ed un ospedale a Gerusalemme, fonda l’Ordine Ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme, che il suo successore, Raimondo de Puy, trasforma in organizzazione militare.
Sarà l’unico a giungere fino ai giorni nostri, conservando le prerogative di sovranità e personalità giuridica, pur mutando il suo nome in quello di Cavalieri di Malta.
Leggende senza alcun fondamento storico, fanno risalire al XII secolo persino la costituzione dell’Ordine della Giarrettiera, che sarebbe stato fondato da Riccardo Cuor di Leone durante l’assedio di Acri del 1190, distribuendo legacci di cuoio ai suoi uomini perché potessero riconoscersi nella mischia.
Anche la lunga e faticosa ?Reconquista? della Spagna araba generò numerosi ordini cavallereschi, alcuni dei quali molto noti, come quello di Calatrava (1158) o di Sant’Jago della Spada (1170) o di Alcantara (1176).
Persino nella fredda e lontana Danimarca, re Canuto VI fonda, nel XII secolo, l’Ordine dell’Elefante per celebrare un crociato danese che si narrava avesse ucciso l’animale nel corso di uno scontro con i saraceni.
Singolare, poi, quello costituito dal conte Raimondo Beringhieri di Barcellona nel 1149: per esprimere la sua gratitudine alle donne che avevano respinto un’incursione saracena a Tortosa, armate di scuri e di mazze, egli istituì per loro l’Ordine delle Dame della Scure, cui attribuì numerosi privilegi.
L’Ordine, che successivamente prese il nome delle Dame del Passatempo, si estinse in pochi anni.
Naturalmente, non tutta la cavalleria apparteneva agli ordini religiosi, bensì erano questi un aspetto del più vasto fenomeno epocale e ne erano, allo stesso tempo, ispirati ed ispiratori.
Spesso il cavaliere era anche un predone, un guerriero spietato, a volte organizzato in bande dedite al saccheggio ed alle rapine.
Oppure agiva, da solo o in gruppo, come un vero e proprio mercenario.
Masnadieri erano chiamati i gruppi di servi soldati, con un termine che, oggi, ha assunto un significato esclusivamente dispregiativo.
Anche per tutti questi motivi, si cercava, sempre più, di limitare l’accesso alla cavalleria al fine di renderla più governabile e controllabile.
Ecco perché, in buona sostanza, cavalieri si nasce e non si diventa più, se non per meriti eccezionali.
Nel suo famoso vers ?Pos de chantar m’es pres talenz?, il grande trovatore Guglielmo IX d’Aquitania, proprio agli inizi del XII secolo, scrive:
?Molto sono stato amabile e gaio,
ma Nostro Signore più non lo vuole:
ormai non posso sopportare il fardello,
tanto sono vicino alla fine.
Tutto ho lasciato quanto amare solevo,
cavalleria e orgoglio;
e poiché questo piace a Dio l’accetto,
ed Egli, che mi prenda con sé!?.
Chissà se Galgano ha mai udito cantare i vers di Guglielmo?
Alla sua scuola e con il suo esempio era fiorita la grande stagione dell’amore cortese, dilagata poi in tutte le corti europee in rivoli di trascrizioni, rielaborazioni, rifacimenti, interpretazioni, esecuzioni di ogni genere.
Forse, in sella al suo destriero, lungo l’antica strada delle capanne, Galgano pensava alla cavalleria e all’orgoglio di Guglielmo, mentre galoppava verso il castello di Miranduolo.
Non si hanno notizie di tornei nei castelli della zona, ma é probabile che qualcuno vi si svolgesse; si erano così diffusi, nonostante l’ostilità della Chiesa, che il concilio del 1179 sentì l’esigenza di vietarne lo svolgimento.
Anche Galgano avrebbe potuto parteciparvi, nel tipico abbigliamento del cavaliere di allora: cotta di maglia al polpaccio, una lunga lancia e lo scudo ?a mandorla?, sproni dorati e cintura, l’elmo a tronco di cono.
Dal castello di Miranduolo si prosegue, ancora oggi, lungo un sentiero ai piedi del Poggio di Fogari, per poi tornare alla Merse.
E’ possibile discendere il fiume, seguendo alcuni sentieri lungo le sue sponde, e raggiungere la zona delle Vene di Ciciano, dove copiose sorgenti riversano nel fiume circa 930 litri d’acqua al secondo.
Declivi, colline, rivoli, boschi, impervie salite, atmosfere d’altri tempi, anche nei nomi dei fossi che vi nascono, come Mangiagatti, Spiritello, Boccastrega.
Querceti, roveri, castagni, lecci, carpini, rendono quasi esclusivamente boschiva la vegetazione, mentre in quest’area, racchiusa nel Parco Naturale della Pietra, possiamo ancora incontrare martore, puzzole, gufi, falchi, poiane, merli acquaioli, martin pescatori, sparvieri e caprioli.
L’arrivo dei cistercensi a Monte Siepi segnò anche l’inizio di una lunga serie di interventi nel territorio circostante con attività di prosciugamento e bonifca di terreni paludosi e di inalveamento di parte delle acque della Merse per ottenere energia idraulica.
L’abbazia, infatti, possedeva un mulino, un ferriera e una gualchiera per la lavorazione dei panni.
L’azione dei monaci sul territorio circostante si sviluppò nei modi più disparati e, oltre alla realizzazione delle consuete opere agricole ed idrauliche, vide la loro partecipazione diretta a molte attività tipiche di quelli che, oggi, potremmo definire operai specializzati.
Molti parteciparono all’edificazione del Duomo di Siena, dopo che fra Vernaccio venne eletto per primo Operaio del Duomo nel 1257.
Altri invece furono Camerlenghi e tesorieri della Repubblica Senese, con incarichi di grande prestigio e potere.
In circa 150 anni dal loro arrivo, i Cistercensi riuscirono anche ad entrare in possesso di vasti beni e delle loro rendite.
Sparsi in un ampio territorio che comprendeva località anche molto distanti e diverse tra loro, portarono i monaci galganiani ad essere presenti, tra l’altro, anche a Frosini, Monticiano, Luriano, Moverbia, Castiglione della Pescaia, Pomarance, Asciano, Montalceto, Orgia, Montalcino, Montepescali, Grosseto, Siena Poggibonsi, San Giminiano, quale risultato di una attenta politica di permute e compravendite, sostenute da abbondanti e generose donazioni.
Oltre che cavaliere, Galgano é anche nobile, o meglio ancora, di nobile discendenza.
Assegnare origini aristocratiche a figure in odore di santità era abitudine diffusa, sia per ‘nobilitarne? in qualche modo il culto, sia per attrarre realmente i rampolli della nobiltà feudale nell’orbita della professione ecclesiastica. Questa tendenza contribuì non poco a preparare il terreno alle chiusure del secolo successivo e vide la sua massima affermazione proprio verso la fine del XII secolo.
Scorrendo le vite dei santi, vissuti o canonizzati in quei cento anni, si ritrovano caratteristiche tali da poter individuare almeno alcuni fenotipi guida: caratteristiche comuni che ricorrono nella maggior parte dei personaggi esaminati.
La nobiltà delle origini, in tutti i casi, rafforza lo spessore dei protagonisti e di chi ne promuoveva il culto. Galgano é un laico che, all’improvviso, decide di ?lasciare il secolo?.
Non é un religioso, non un chierico, non un monaco, né un prelato e nemmeno un canonico, anche se, in seguito, si sentirà il bisogno di inserirlo in un organismo religioso affermando che, prima del trapasso, era divenuto oblato del monastero cistercense delle Tre Fontane di Roma.
Piccolissima digressione, perché proprio le Tre Fontane?
Personalmente credo che ciò avvenga per gli interessi che quel monastero vanta nell’area maremmana e persino nella valle dell’Elsa, dove nel 1161 possiede ancora il castello di Scerpenna; risalgono addirittura al X secolo il possesso di Ansedonia e di proprietà all’isola del Giglio, quando il monastero non é ancora divenuto cistercense, cosa che avviene il 25 ottobre 1140, quando Bernardo Paganelli di Montemagno, futuro papa con il nome di Eugenio III, prende possesso del monastero abbandonato per la malaria.
I suoi beni risalgono addirittura alla donazione di terre dislocate in Toscana e nell’Alto Lazio, fatta da Carlo Magno grazie alla quale le Tre Fontane ricevono esenzioni e dipendono direttamente dal Pontefice.
Il collegamento tra Galgano e questo monastero poteva avere quindi anche una funzione di recupero, o meglio ancora, di saldatura tra i vasti possedimenti che ancora restavano all’abbazia romana e quelli che la nuova struttura sorta a Monte Siepi avrebbe potuto acquisire nel tempo.
Ma questa é naturalmente solo un’ipotesi, anche poco approfondita.
Se nel cristianesimo delle origini, il martirio era stato inevitabilmente motivo di santità, nel XII secolo, in un’Europa ormai quasi interamente cristianizzata, era necessario affidarsi ad un’immagine di santità profondamente mutata e in rapida trasformazione.
Capacità taumaturgiche riconosciute, opere di carità, miracoli, rappresentano sempre le basi della santità; la nobiltà risulta alquanto gradita e non é difficile intuirne i motivi.
Possiamo così incontrare, giusto per citarne qualcuno tra i più famosi, Alberto Magno, Bernardo di Pagliara, Bernardo da Parma e lo stesso Bernardo per eccellenza, quello di Clairvaux con i suoi fratelli, Canuto Laward, duca di Schleswig, San Drogone, eremita fiammingo, Elena di Skövde, martire svedese di nobile famiglia, Felice di Valios, San Galdino, arcivescovo di Milano, della famiglia Valvassori della Scala, Gilberto di Sempringham, Giordano di Sassonia, della nobile famiglia degli Eberstein, Giovanni Bono, Goffredo di Kappenberg, Guglielmo di Vercelli, che visse due anni nel cavo di un albero, Ida di Boulogne, madre del conquistatore di Gerusalemme, Goffredo di Buglione, San Lorenzo, arcivescovo di Dublino, Magno Erlendson, conte delle isole Orcadi, Nersets Klajetzi, cattolico armeno, San Norberto, fondatore dei Premonstatensi e figlio del conte di Gemery, Eberardo di Salisburgo, Pietro il Venerabile, dei signori di Montboissier, Ranieri di Pisa, Benedetto Ricasoli, Roberto di Molesme, fondatore dei Cistercensi, Ubaldo, vescovo di Gubbio, della nobile famiglia dei Baldassini, Ugo di Cluny, Umberto III di Savoia.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, poiché, su qualche centinaio di santi, vissuti o canonizzati nel XII secolo, la maggior parte vanta reali o presunte origini nobiliari.
Abbiamo poi anche, quale segno di una parziale attenzione ai gruppi emergenti della società, alcuni rappresentanti dei mestieri che venivano sviluppandosi e affermandosi in tutta la cristianità, come Omobono, patrono dei mercanti e dei sarti, e Gerardo dei Tintori con, infine, santi davvero originali come Cristina Mirabilis, umile pastorella belga in grado di resuscitare o Gerlach, nobile irlandese che, al rientro in patria dal pellegrinaggio in Terra Santa, visse come eremita nel cavo di una quercia, dove morì nel 1172 oppure il monaco basiliano Luca di Messina e la vergine reclusa Verdiana.
Nomi che, per molti, non significano nulla, eppure, allora come oggi, poter vantare di aver dato i natali ad un santo o possederne le reliquie, magari miracolose, significava divenire meta di grandi folle, con tutti i vantaggi del caso.
Forse possiamo farcene un’idea vedendo ciò che accade per Padre Pio o per la Madonnina della Lacrime di Civitavecchia, per Lourdes o per Fatima, per frà Dolcino o per Natuzza Evolo.
Certo, le differenze sono enormi, il mondo é cambiato, ma, forse, gli uomini sono cambiati meno.
Il bisogno di spiritualità, anche indipendentemente dal tipo di fede, non é minore oggi di allora e certi recenti fenomeni possono testimoniarlo in modo evidente.
Stranamente, o forse no, esso conduce anche alla riscoperta di antiche manifestazioni di fede che, guarda caso, affondano le loro radici più solide proprio nel cuore del XII secolo.
Possiamo così vedere tornare di moda culti come quello Zen o forme di religiosità singolari come il Sufismo e scoprire, in entrambi i casi, che quei fantastici cento anni sono stati decisivi anche per fenomeni alquanto lontani geograficamente, ma, nonostante questo, estremamente vicini e contigui per affinità tematiche e per atmosfere comuni.
Dopo essere nato e rimasto confinato in Cina dal 600 al 1100 circa, con il periodo dei Grandi maestri dell’era d’oro compreso tra il 630 ed il 960, lo Zen viene introdotto in Giappone, dove acquista subito nuova linfa e diffusione, da un contemporaneo del nostro eremita, Eisai (1141-1215), sostenitore della scuola Rinzai, mentre il fondatore giapponese della scuola Soto Zen fu Eihei Dogen Kigen (1200-1253).
Se, anche per il Sufismo, la nascita ufficiale é da collocare introno al 600-650, la sua riconosciuta età d’oro é certamente il XII secolo.
Alcuni dei più grandi maestri sufi di tutti i tempi sono contemporanei di Galgano come Yahya Suhrawardi (1155-1191), morto in circostanze misteriose, forse fatto uccidere da Saladino per il suo pensiero considerato eretico e fonte di divisione nel mondo musulmano, e per questo noto anche come ?il maestro assassinato? o ?il maestro martire?, oppure come Farid al-Din ‘Attar (1140-1230), la cui opera é tra le più note e tradotte dell’immensa produzione dei pensatori e poeti sufi.
Un passo di ‘Attar potrebbe perfettamente adattarsi al messaggio di pace e di tolleranza di Galgano.
Egli, infatti, scrive:
?So per scienza certa che domani, davanti alla Porta divina, le settantadue sette (mi viene da sorridere davanti all’ennesimo multiplo del 12) non saranno che una. Non c’é motivo che dica che questa é cattiva e quell’altra é buona, dal momento che, se guardi bene, sono tutte alla ricerca dell’Essere supremo. Fa, Signore, che i nostri cuori abbiano solo te e respingano lontano da Te il fanatico?.
Colui, invece, che elabora la ?teoria dell’equilibrio?, che influenzerà profondamente il sufismo, é Abù Bakr Muhammad Ibn al-’Arabi (1165-1240) che scrive:
?Il mio cuore é in grado di assumere qualsiasi forma: chiostro di monaci cristiani, tempio di idoli, prateria di gazzelle, pietranera dei pellegrini, Tavola della Legge mosaica, Corano... L’amore é il mio credo e la mia fede?.
Famoso per le sue doti psichiche, capace di premonizioni e comunicazioni telepatiche con vivi e morti, dotato anche di poteri terapeutici, Ibn ‘Arabi ha lasciato una vastissima opera letteraria, rimasta incompleta, che conta oltre 400 titoli.
Infine, nel medesimo anno del trapasso di Galgano e della nascita di San Francesco, nasce al Cairo, Ibn Al-Faridh (1181-1235), i cui luoghi di culto, la tomba, il tempio ed il cimitero di Qarafa al cui interno vennero innalzati, sono ancora oggi meta di pellegrinaggi, mentre le sue liriche vengono tuttora eseguite durante i concerti spirituali e le danze estatiche delle confraternite sufi.
Negli infiniti richiami ai giorni nostri che s’incontrano nelle vicende del XII secolo, possiamo così anche aggiungere il fatto che Saladino é un curdo oppure che la parola ?assassino’ deriva dal nome di una setta nata e prosperata proprio in quel secolo, quella degli hashishyyin le cui gesta fanno da sfondo alle vicende crociate e a molti avvenienti degli anni centrali del secolo.
Alcuni fanno derivare l’etimologia del termine dalla stessa radice di hashish, che nel significato originale si riferiva al foraggio o all’erba fatta essiccare e che, in seguito, venne utilizzato per indicare la canapa indiana i cui effetti narcotici erano noti ai musulmani già nel Medioevo.
Si narrava, infatti, che gli Assassini, veri e propri killer dell’epoca, agissero sotto l’influsso di sostanze stupefacenti, ma, naturalmente questo non fu mai provato.
Una delle prime descrizioni di questa setta si trova nel racconto di un inviato di Barbarossa, mandato in Egitto e in Siria nel 1175.
?Sappiate che sulle montagne ai confini di Damasco, Antiochia ed Aleppo,? egli scrive nel suo rapporto ?c’é una razza di saraceni che nel loro idioma sono chiamati Heyssessini, e in provenzale segnors de montana. Questa stirpe di uomini vive senza legge: in contrasto con la legge dei saraceni si cibano della carne dei maiali ed inoltre si uniscono senza alcuna distinzione con tutte le donne, comprese le proprie madri e le sorelle. Vivono sulle montagne e sono pressoché invincibili perché possono rifugiarsi in castelli ben fortificati...Tra loro vi é un Signore che desta il più grande timore sia in tutti i principi saraceni che nei principi cristiani dei paesi confinanti. E ciò perché li fa uccidere in una maniera straordinaria che é la seguente sulle montagne possiede molti splendidi palazzi... in cui vi sono molti figli dei suoi contadini che vi vengono allevati sin dalla più tenera età. Qua apprendono molte lingue come il latino, il greco, il provenzale, il saraceno... A questi giovani, dalla prima infanzia fino alla maturità, i maestri insegnano che devono obbedire a tutti i desideri del signore per ottenere le gioie del paradiso. .. e dal momento in cui sono portati all’interno dei palazzi non vedono più nessuno all’infuori dei loro maestri e non ricevono nessun ordine fino a quando non sono convocati alla presenza del loro Principe...Quindi il signore dà ad ognuno di loro un pugnale dorato e li manda ad uccidere quel principe che egli ha indicato?.
Di loro si parlerà e si scriverà moltissimo, con molte leggende miste a verità, e se ne occuperanno personaggi molto noti, come Marco Polo o Guglielmo di Tiro, e meno conosciuti come il grande islamista francese del XIX secolo, Silvestre de Sacy, che il 19 maggio 1809, lesse una memoria all’Institut de France sulla dinastia degli Assassini e sull’etimologia del loro nome.
Le moderne missioni suicide dei Feddayn palestinesi e parte del terrorismo islamico ricordano molto da vicino le gesta di questa setta che colpiva allora i centri del potere islamico e crociato in modo indistinto ed in virtù della sua connotazione sciita.

Parte quattordicesima

Scherzi a parte, sarebbe necessario aprire una nuova parentesi per approfondire la vastissima simbologia numerica della religione cattolica, dove i medesimi numeri assumono differenti significati a seconda del loro utilizzo, però é necessario e sufficiente ricordare almeno il senso di quelli più importanti per comprendere il peso di questo simbolismo sul pensiero occidentale, anche su quello moderno in misura maggiore di quanto si possa credere, la sua influenza sul quotidiano, i suoi risvolti più nascosti, la mostruosa preparazione teologica che diviene sempre più indispensabile per poter affrontare qualsiasi disputa, persino le infinite tradizioni popolari che hanno nei numeri la genitrice più prolifica.
Cercherò di essere più sintetico e chiaro possibile, anche se l’argomento é davvero complesso.
Partiamo subito dal numero che piace tanto a Gioacchino da Fiore, il dieci.
Se lo pensiamo scritto in cifre latine, otteniamo una bella X.
Essa può tranquillamente avere molteplici chiavi di lettura: può contrassegnare un punto, per esempio, cioè quello che si ottiene all’incrocio dei due assi, oppure essere il segno della moltiplicazione, ma la ics é anche, e molto spesso, il simbolo dell’incognita, dello sconosciuto, dell’ignoto.
Tutte queste valenze sono presenti nel medesimo numero e variano di significato in base alle circostanze in cui esso viene utilizzato.
L’esatta interpretazione deve provenire dalla conoscenza dei riferimenti, dalla capacità di analizzarli e correlarli e ciò vale per tutti i numeri che possiedono anche un minimo valore simbolico possibile.
Non esiste una tradizione cattolica che rappresenti l’unità, poiché essa é, per definizione, esclusivo attributo divino.
?Non avrai altro Dio all’infuori di me?, e per questo motivo, ma guarda un po’, possiamo ritrovare una simbologia dell’Uno solo in presenza ed in coppia con il Due, mentre la stessa é abbondantissima per il Due da solo, che, guarda caso, risulta essere anche il numero centrale di entrambi i nostri due secoli.
I testi biblici e patristici sono ricolmi di coppie: Caino e Abele, l’anima e il corpo, i regni d’Israele e di Giuda, i due Testamenti, e così via, come lo é, per esempio e di conseguenza, anche gran parte dell’arte romanica.
Laddove ?la dualità genera la molteplicità, l’unità genera stabilità?, afferma Pitagora che si rifà a Boezio.
Ed ecco che, approfondendo la simbologia del 2, ritroviamo, nuovamente, legami profondi con il nostro eremita.
Siamo nel chiostro di Moissac: esso può venire suddiviso in due parti e, nei due settori che ne risultano, si possono facilmente riconoscere temi simili tra loro.
Sia nell’uno che nell’altro settore, ritroviamo la figura di Daniele che, in uno, riceve il pranzo di Abacuc portato dall’angelo, all’interno di un programma nel quale domina la Vergine, in quanto la scena é una prefigurazione della Natività virginale, mentre, nell’altro, circondato dai suoi leoni, é la figurazione del Cristo della Passione.
E’ stato detto e scritto che il dualismo é una componente essenziale del simbolismo romanico e, forse, non esiste in quest’arte nulla di più singolare delle Maschere della Terra, solitamente collocate all’esterno delle chiese per difenderne ed esorcizzarne l’ingresso, con chiaro valore scaramantico.
Temi apocalittici fanno spesso loro da cornice, rivestendo gli archivolti dei portali con rappresentazioni dell’Agnello, delle Virtù, del Giudizio, dei Lavori dei mesi, dei segni dello zodiaco.
Una tra le più incredibili é, sicuramente, quella che decora un capitello a Echillais, soprattutto per la sua straordinaria rassomiglianza con i Tao t’ie cinesi dell’epoca Han, con i medesimi occhi sporgenti, con uguali orecchie a punta di lancia, identico labbro cascante e, particolare davvero strano, mancanti tutti della mascella.
La Maschera di Echillais si richiama alla descrizione del leviatano, o coccodrillo mostruoso, contenuta nel libro di Giobbe, ma l’ispirazione può anche assumere diversi riferimenti, come nel caso dei molti leoni con due corpi e una sola testa, che simboleggiano contemporaneamente la divisione dell’Uno in Due e il ritorno del Due all’Uno, passaggio che costituisce l’essenza stessa delle Maschere della Terra.
Quasi ovunque possiamo, pertanto, ritrovare elementi che intendono sottolineare ed illustrare la dualità che governa il mondo.
I numeri a cui, in assoluto, il Cristianesimo assegna maggiori virtù sono comunque il 3 e il 4.
La loro somma produce il sette, il loro prodotto é dodici.
Sant’Agostino ritiene che essi rappresentino rispettivamente lo spirito e la materia.
Tre é il numero dell’anima; corrisponde alla Trinità, ai giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, alle tre età del popolo ebreo, ai tre significati della Scrittura.
Nell’Antico Testamento la Trinità é simboleggiata dai tre angeli alla mensa di Abramo.
Quattro é il numero degli elementi, delle stagioni, dei fiumi del Paradiso (Fison, Geon, Eufrate e Tigri), delle lettere che compongono il nome del primo uomo ADAM; che sono, anche, le iniziali dei quattro punti cardinali (anatolé, dysis, arktos, mesêmbria).
Le combinazioni di questi due numeri appaiono in moltissimi luoghi sacri, vuoi sotto forma di somma, che di prodotto, che di proporzione, o, addirittura, di contrapposizione, quasi a sottolineare la divisione tra la terra e il cielo, tra il corpo e lo spirito.
Molto esplicativa in proposito é l’iscrizione contenuta nel chiostro di Vaison-la-Romaine, in Provenza, che, tradotta, recita più o meno così:
?Io vi esorto, fratelli, a trionfare del partito dell’Aquilone, osservando fedelmente la regola del chiostro, perché così pervenne all’Austro (Cristo); che il triplice fuoco divino non dimentichi d’infiammare la dimora quadrangolare, in modo da vivificare le pietre viventi in numero di due volte sei. Sia pace a questa casa?.
Il 5 ha una posizione davvero particolare, poiché può essere la perfetta raffigurazione dell’uomo microcosmo, quanto alludere alla stella della Cabala, con significato alquanto malefico.
Nel nostro amato dodicesimo secolo, é Ildegarda di Bingen a rappresentare il rapporto tra il 5 e l’uomo.
Infatti nei suoi incredibili disegni, a proposito, tutti dovrebbero guardarseli per la loro bellezza, per i colori, gli accostamenti e gli scenari, l’uomo iscritto nel quadrato si divide, in altezza dalla testa ai piedi, in cinque parti uguali, come anche nel senso della larghezza, con le braccia distese.
Inoltre, l’uomo é retto dal numero 5, poiché possiede cinque sensi e cinque estremità: la testa, le braccia e le gambe.
Le rivelazioni che Mosé riceve da Dio sul monte Sinai sono racchiuse in cinque libri e cinque sono le pietre che Davide raccoglie nel letto del torrente per poter affrontare Golia.
A questo proposito, é nuovamente sant’Agostino a fornirci una lettura simbolica precisa:
?Le cinque pietre di Davide rappresentano i cinque libri della Legge di Mosé. La Legge, a sua volta, contiene i dieci precetti salutari, dai quali derivano tutti gli altri. La Legge é perciò rappresentata contemporaneamente dal numero Cinque e dal numero Dieci. Ecco perché Davide combatte con cinque pietre e canta, com’egli dice, con uno strumento a dieci corde?.
Contrapposto al Cinque, simbolo dell’umanità, vi sarebbe il Sei, che rappresenta la potenza del sovrumano.
Sei sono i giorni della Creazione e Sei le opere di misericordia.
Per sant’Agostino é la somma dei primi tre numeri (1+2+3=6), ma anche il prodotto delle parti uguali (2 e 3) e, anche, quello dei primi tre numeri (1x2x3=6).
Quasi tutti, invece, sanno che, ripetuto tre volte, diviene il numero della Bestia dell’Apocalisse (666).
Il Sette é tra i numeri che occupano un ruolo predominante all’interno della Bibbia ed é, per eccellenza, un numero legato all’Apocalisse.
Abbiamo così sette Chiese d’Asia, sette corna della Bestia, sette coppe della collera divina, sette sacramenti, sette gradi del sacerdozio, sette virtù teologali, sette peccati capitali, sette discipline del sapere (trivium più quadrivium), sette sigilli da aprire.
L’otto, invece, simboleggia la resurrezione e la rinascita mediante il battesimo.
Otto sono le Beatitudini e le tonalità della musica gregoriana.
I nove cori angelici basterebbero da soli a fornire le valenze simboliche del numero Nove, che contiene tre volte il numero distintivo della Trinità.
Passando per i nove cieli si accede al decimo, la sede dei beati.
Infrangendo la barriera del Dieci, cifra del Decalogo e quindi simbolica della Legge, l’undici rappresenta il peccato in quanto appunto infrazione della Legge stessa.
Del Dodici abbiamo già ampiamente parlato e non occorre ritornarci, mentre ancora qualcosa rimane da dire sul Ventiquattro (2 volte dodici) che é anche il numero dei Vegliardi dell’Apocalisse, delle ore del giorno sommate a quelle della notte, dei Lavori dei mesi sommati ai Segni dello Zodiaco, quasi a simboleggiare l’anno cosmico in relazione con il movimento rotatorio delle sfere celesti.
Infine, il Quaranta, numero dei tempi delle sofferenze bibliche: quaranta giorni e quaranta notti di diluvio, quaranta giorni di digiuno di Gesù dopo il battesimo, quarant’anni di vagabondaggio degli Ebrei nel deserto prima di raggiungere la Terra promessa.
La vastissima simbologia dei numeri, naturalmente, non si esaurisce in queste poche righe, ma, già così, riusciamo ad avere un’idea del suo valore e della sua importanza e, soprattutto, comprendiamo meglio il suo evidente ruolo, così decisivo, specie negli anni che più ci interessano.
Il dogma passa, infatti, sia attraverso la sua rappresentazione figurata che attraverso il significato simbolico di tutti gli avvenimenti ad esso collegati e prevede, sempre, due differenti chiavi di lettura: una, adatta all’immenso popolo dei fedeli che, nella sua stragrande maggioranza, non sa ancora leggere e scrivere e a cui, pertanto, viene richiesta solo la semplice osservazione, l’altra per ?professionisti? della fede che, invece, necessita di profonde conoscenze, indispensabili per l’interpretazione nascosta nel simbolo. Così, succede che tutto quanto orna i luoghi di culto sia funzionale al racconto e possa venire definito come un vero e proprio ?fumetto? ante litteram, adatto a trasmettere su differenti piani poiché deve coniugare insieme semplicità di lettura e rigore dottrinale.
Qualunque fedele, anche il meno preparato, può facilmente riconoscere le storie bibliche, le vicende dell’Antico e Nuovo Testamento, le Verità rivelate e tutti i principali cardini su cui si regge il dogma della fede.
Per contro, chi possiede la ?conoscenza? può, invece, decrittare e svelare l’innumerevole mole di messaggi contenuti nelle stesse immagini, elevandosi, di fatto, ad un ruolo superiore, paragonabile a quello di chi dispone di qualità eccezionali.
Tutto il secolo é pervaso da questa commistione tra simbologia e realtà, tra interpretazione e apparenza, con frequenti sconfinamenti nell’esoterismo, nella magia, nell’occulto.
Non é un caso, quindi, se viene attribuita ad un altro incredibile personaggio del XII secolo, una stuzzicante profezia che prevede la fine del mondo con l’ascesa al trono papale di Petrus secundus, colui che dovrebbe venire eletto subito dopo la scomparsa del successore dell’attuale pontefice, Giovanni Paolo II.
Se ciò fosse vero, saremmo davvero vicini all’Apocalisse e dovremmo rendere merito di questa profezia a san Malachia, monaco cistercense di cui, naturalmente, si conosce ben poco e che visse, secondo gli studiosi, tra il 1094 e il 1148, anno in cui spirò, pare tra le braccia di san Bernardo, nel giorno dei defunti, ossia il 2 novembre.
Guarda caso, lo stesso anno in cui nasce san Galgano.
Canonizzato nel 1190 da Clemente III, per i suoi meriti e il suo contributo al riassetto della chiesa irlandese, venne ?sistemato? tra i Cherubini e i Serafini.
Infastidito dagli appellativi di ?mago? e di ?profeta? che spesso gli venivano attribuiti dalla gente, preferiva viaggiare nell’anonimato, senza mai annunciare il suo arrivo ed é grazie a lui che i cistercensi si sono insediati anche in Irlanda.
Tra le tante, la profezia che più ha dato fama e notorietà al monaco di Armagh, é, ovviamente, considerata di incerta attribuzione e fa la sua prima comparsa, molti secoli dopo la morte del suo presunto autore, in un’opera del benedettino Arnoldo Wion, stampata a Venezia nel 1505 e intitolata ?Lignum Vitae?.
Si tratta di una serie di motti che fornirebbero l’esatta cronologia dei papi a partire da Celestino II (1143-1144) per giungere sino al giorno del Giudizio, per un totale di 112 versetti (altro numero affine ai nostri), corrispondenti ad altrettanti pontefici.
L’ultimo verso, ovvero il centododicesimo, recita esattamente così:
?In persecutione extrema sacrae romanae ecclesiae sedebit Petrus romanus, qui pascet oves in multis tribolationibus; quibus transactis, civitas septis-collis diruetur, et Judex tremendus judicabit populum suum. Amen.? (Durante l’ultima persecuzione della santa romana chiesa, siederà Pietro Romano, che pascerà le sue pecore tra molte tribolazioni, dopo le quali la città dei sette colli sarà distrutta e il Giudice terribile giudicherà il suo popolo. Così sia.).
San Pietro fu il primo Papa, colui al quale Cristo disse: ?Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa?.
L’elenco ufficiale dei papi, però, prosegue poi con moltissime varianti, sia per le successioni, che per le date, che per i nomi, poiché la storia della Chiesa é ricca anche di figure come quelle degli antipapi o come di quelli erroneamente considerati come pontefici.
Queste innumerevoli discordanze, impediscono di avere un effettivo quadro cronologico a prova di errore da poter confrontare con quello della profezia, ma, ciò nonostante, lo scenario previsto di Malachia rimane inquietante e denso di significati.
Ecco così che, dopo papa Wojtyla (piccola osservazione: mi pare che sia uno dei primi papi, se non il primo, ad essere divenuto più famoso con il suo nome ?civile? che con quello religioso), dovrebbe venire eletto un pontefice che risponde al motto De gloria olivae e, subito dopo, l’ultimo, l’ormai famoso Petrus II, quello durante il cui pontificato avverrà la fine del mondo.
In questa divagazione sul simbolismo religioso ho preferito limitarmi soprattutto all’aspetto numerico, ma é ovvio che vi sarebbe ancora molto da dire sulla simbologia delle figure, degli animali, delle posizioni, delle piante e, praticamente, di qualsiasi cosa venga rappresentata negli edifici e nelle opere religiose.
Non si può comprendere appieno lo sviluppo storico, specie quello del periodo medievale, senza tenere conto di questa realtà o sottovalutandone l’importanza.
Indiscutibilmente, in essa, i numeri rivestono comunque un ruolo di primo piano, come per Alano di Lilla, secondo cui: ?l’idea divina modella la figura del mondo servendosi dei numeri?, o per Ugo da San Vittore, che alla numerologia biblica ha dedicato parte della sua opera e dei suoi commentari.
Del resto, basta concludere questa lunga parentesi citando la descrizione della Città Celeste contenuta nel capitolo 21 (riecco anche lui) dell’Apocalisse di Giovanni, per comprendere che, all’interno di questa onnipresente simbologia, il numero dodici, quello che a me interessa più di tutti insieme al 21, é in posizione assolutamente dominante:
?E l’angelo mi trasportò in ispirito su un’alta montagna e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal Cielo, da presso Dio, pronta come una sposa abbigliata per il suo sposo... Il suo splendore era simile a quello di pietra assai preziosa... Aveva intorno un’alta e robusta muraglia. Aveva dodici porte, e sulle porte dodici angeli, e dei nomi v’erano scritti, quelli delle dodici tribù dei figli d’Israele. A Oriente, tre porte. A settentrione, tre porte. A Mezzogiorno, tre porte. A occidente, tre porte. Il muro della città aveva dodici fondamenta, e sopra di esse dodici nomi, quelli dei dodici Apostoli dell’Agnello...La città aveva la forma di un quadrato. La lunghezza, l’altezza e la larghezza erano uguali (12000 stadi)... La città non ha bisogno né del sole né della luna che la illuminino, perché la gloria di Dio la rischiara e la sua luce é l’Agnello... Le dodici porte erano dodici perle...?.

Parte tredicesima

Uno degli ultimi ordini religioso militari ad apparire sulla scena del XII secolo é quello dei cavalieri Teutonici, nato a San Giovanni d’Acri tra il 1189 e il 1190 e divenuto ordine militare solo nel 1198, quando si trasferisce dalla Palestina in Prussia.
Il nord est europeo é l’ultima frontiera della cristianità e qui opererà l’ordine Teutonico, in Estonia, Lituania, Carlandia.
Sullo sfondo di questo scenario, le profezie apocalittiche di Gioacchino da Fiore (1138-1202), fondatore nel 1191 dell’ordine Florense, approvato nel 1196 da papa Celestino III.
L’incontro con questo singolarissimo personaggio, che, come si deduce facilmente dalle date, é un contemporaneo di Galgano, o meglio, lo vede nascere e anche morire, é stato paragonabile ad una vera e propria folgorazione.
I profondi legami simbolici tra i due sono tanti e tali da richiedere una digressione, per forza di cose superficiale, ma necessaria, intorno alla vita, alle opere ed al pensiero dell’abate calabrese, vero emblema del travaglio di tutto un secolo.
Mi si perdoni qualsiasi inesattezza, poiché il senso di queste righe é solo quello di stimolare una maggiore conoscenza di una delle più stravaganti e controverse figure di quei cento incredibili anni.
Occorre cercare altrove una seria, approfondita e rigorosa analisi, mentre qui mi preme di più sottolineare gli aspetti che mi hanno condotto a ritenere parte della sua opera come estremamente illuminante e significativa per i miei tentativi di fornire una spiegazione all’enigma.
Resta, comunque, il fatto che la produzione letteraria di Gioacchino si colloca, in buona parte, proprio negli ultimi anni di vita di Galgano e in quelli immediatamente successivi alla sua morte, in perfetta contemporaneità con la consacrazione della Rotonda, con l’inqusitio in partibus, con la proclamazione della santità dell’eremita e, anche, o forse soprattutto, con quelli di Enrico VI, dei primi diplomi a favore dei primi monaci cistercensi arrivati a Monte Siepi, gli stessi anni in cui, probabilmente, inizia a definirsi l’immagine agiografica dell’eremita di Chiusdino, che Rolando da Pisa fisserà per primo in forma manoscritta soltanto 40 anni dopo la morte del santo.
Naturalmente, anche per Gioacchino siamo in presenza di scarse informazioni sulla vita, con differenti posizioni tra gli studiosi, che si sono nel tempo riunite in due sostanziali diverse fonti di riferimento che divergono anche sulle sue origini e suoi natali.
Nativo di Celico, in Calabria, Gioacchino viene tradizionalmente ritenuto dalla maggioranza degli storici figlio di un notaio municipale del regno normanno, mentre, l’interpretazione di alcuni cenni autobiografici contenuti nelle sue opere, svelerebbe una sua origine contadina.
Nel 1167, Gioacchino abbandona la carriera di funzionario di cancelleria e intraprende il pellegrinaggio in Terra Santa dove, durante una visione avuta sul monte Tabor, gli viene dischiusa la comprensione di tutta la Sacra Scrittura.
Rientrato dalla Palestina, trascorre il periodo 1168-1170, prima come eremita nei pressi di un monastero greco sull’Etna, poi in una spelonca nei dintorni di Cosenza e, infine, ospite dell’abbazia di Sambucina, poco distante dalla cittadina calabrese.
Il vescovo di Catanzaro legittima la sua predicazione e lo ordina sacerdote.
Nel 1171, mentre si trova nel monastero di Corazzo, decide di lasciare il clero secolare e vestire l’abito bianco dei cistercensi.
Nel 1177 viene eletto abate dei cistercensi di S.Maria di Corazzo.
Dal gennaio del 1183 alla primavera del 1185, Gioacchino si trova a Casamari, importantissima abbazia cistercense dell’Italia centro-meridionale, dove riceve due ulteriori ?rivelazioni? sul mistero della Trinità che completano quella avuta sul monte Tabor e lo inducono ad avviare la produzione in parallelo delle sue tre maggiori opere: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum.
Nel maggio del 1184, a Veroli, avviene un incontro tra papa Lucio III e l’abate calabrese, che riceve dal pontefice l’incoraggiamento a proseguire nei suoi scritti.
Risalirebbe a questo periodo la stesura dell’Expositio de prophetia ignota.
Nel 1185, Gioacchino rientra a Corazzo e nel 1186 si reca a Verona per rendere omaggio al nuovo pontefice, Urbano III (1185-1187), da cui riceve un nuovo incitamento a proseguire nella scrittura.
Nella tarda primavera del 1186 esplode il dissenso con l’ordine cistercense, provocato dall’abbandono del monastero di Corazzo a favore dell’eremo di Petra Lata, in cui l’abate decide di ritirarsi seguito da alcuni discepoli.
E’ necessario ricordare che, nella tradizione monacale, prendere i voti significa anche sottoscrivere tre promesse: il voto di stabilità, ossia l’impegno a rimanere fino alla morte nella condizione di monaco e nel monastero; il veto di conversione dei costumi e, infine, il voto di obbedienza alla regola e all’abate.
Per tutti coloro che applicano la regola benedettina la professione deve avvenire alla presenza di tutti i monaci e il novizio che si appresta a professarli deve metterli per iscritto e firmarli, deponendo poi sull’altare la petizione, che sarà conservata nell’abbazia.
Ed é proprio in virtù della prima promessa che i cistercensi di Corazzo accusano Gioacchino di ?infedeltà? al suo monastero.
Paradossalmente, la medesima colpa era stata attribuita, cent’anni prima, allo stesso fondatore dei cistercensi, Roberto di Molesme, dopo il suo abbandono del monastero benedettino di Molesme, da lui stesso fondato nel 1075, per recarsi ad erigere, nel 1098, quello che, fino al 1119, veniva semplicemente chiamato Novum Monasterium, e che, in seguito a tale data, prese il nome di Cîteaux (in latino Cistercium),in uso, pare, per indicare la località in cui sorgeva l’abbazia, anche se la sua esatta etimologia é alquanto incerta.
In questa accezione sarebbe poi stato utilizzato anche per denominare l’ordine che lì vi era nato.
Nel 1188 però, il nuovo pontefice, Clemente III (1187-1191) esonera Gioacchino dai suoi doveri abbaziali nei confronti di Corazzo che viene, in cambio, incorporata dall’allora potente abbazia cistercense di Fossanova.
L’appoggio papale a Gioacchino sarebbe confermato anche da una lettera di Clemente III dell’8 giugno 1188, in cui gli viene rinnovata la fiducia e confermato l’invito a proseguire nella sua opera.
Nell’autunno del 1188, Gioacchino cerca sulla Sila un luogo dove fondare un nuovo monastero.
Nel 1190 ottiene alcune generose elargizioni da Tancredi, con cui tratta di persona, grazie alle quali può avviare la sua costruzione, e si trasferisce definitivamente a San Giovanni in Fiore.
Nei primi mesi del 1191, incontra a Messina, Riccardo Cuor di Leone, che attende in Sicilia condizioni meteorologiche migliori per proseguire verso la Palestina.
Secondo le antiche biografie dei cronisti cistercensi al seguito di Riccardo, l’abate fornisce al re inglese la chiave di lettura, o meglio, l’interpretazione del simbolo apocalittico del drago a sette teste e prevede la fine del Saladino sette anni dopo la caduta di Gerusalemme, in corrispondenza con la crociata dal sovrano Plantageneto.
Nell’estate del 1191, Gioacchino si trova sotto le mura di Napoli, assediata da Enrico VI, a cui profetizza la conquista non violenta del regno normanno di Sicilia, che, in quel momento, é ancora in mano a Tancredi.
Nel settembre del 1192, viene condannato dal Capitolo generale dell’Ordine cistercense come fugitivo e gli viene ordinato di rientrare immediatamente a Corazzo, lasciando il nuovo monastero di San Giovanni.
Gioacchino non esegue l’invito e avvia una lunga disputa che si concluderà con alcune strane coincidenze.
Infatti, il Venerdì Santo del 1196, é chiamato in qualità di confessore dall’imperatrice Costanza d’Altavilla alla corte di Palermo e, nell’agosto del medesimo anno, ottiene l’approvazione della regola del nuovo ordine Florense, in seguito andata perduta, da parte del pontefice Celestino III (1191-1198) che, il giorno 25, emette la bolla Cum in nostra, in cui si chiarisce anche la posizione ecclesiastica di Gioacchino nei riguardi dei cistercensi.
Il 21 febbraio 1197 assistiamo ad una nuova e ulteriore donazione imperiale al monastero di San Giovanni in Fiore, dopo la prima del 21 ottobre 1194, decisa in seguito all’incontro avvenuto tra Enrico VI, che sta recandosi a Palermo per essere incoronato, e l’abate di Celico, e quella del 6 marzo 1195.
Improvvisamente, nel settembre del 1197, muore Enrico VI, pare di malaria, forse contratta a Napoli durante l’assedio del 1191 e, agli inizi del 1198, scompare anche l’imperatrice Costanza d’Altavilla che, prima di morire, conferma le donazioni imperiali all’Ordine Florense con un diploma emanato da Messina nel mese di gennaio.
Nel 1201, l’arcivescovo Andrea di Cosenza dona a Gioacchino una piccola chiesa vicino a Petrafitta, nel cuore della Sila, dove l’abate inizia la costruzione di un eremo che chiama San Martino di Giove.
Qui viene sorpreso dalla morte il 30 marzo 1202 e le sue spoglie sono sepolte nella chiesa abbaziale di San Giovanni in Fiore.
L’iscrizione sulla sua tomba dice: ?Hic Abbas Floris/caelestis gratiae roris?.
Tredici anni dopo, l’ormai noto IV Concilio Lateranense condanna l’opera giovanile di Gioacchino De unitate seu essentia Trinitatis.
La salita al soglio pontificio di Onorio III, vede nuovamente la difesa dell’ortodossia di Gioacchino e del suo Ordine, che viene ulteriormente ribadita dal pontefice nella bolla Ex parte dilectorum filiorum, inviata, nel 1221, all’arcivescovo di Cosenza e al vescovo di Bisignano, nella quale l’abate calabrese viene definito ?vir catholicus?.
Questa lunga parentesi biografica dimostra inequivocabilmente che lo scenario é il medesimo di Galgano, le stesse tensioni, le interminabili dispute, il serrato confronto che, non a caso, deve sbocciare, secondo Gioacchino, nella Concordia, ch’egli ricerca e ritiene di avere trovato nella Sacra Scrittura e che illustra nel suo lavoro forse più significativo.
Non fu questa solo l’opera più diffusa dell’abate, almeno a giudicare dal numero dei manoscritti che ci sono pervenuti o di cui abbiamo notizia, ma, anche, l’unica che egli stesso definisce compiuta nel 1200.
Cinque volumi, di cui il quinto uguale per estensione agli altri quattro, sono necessari a Gioacchino per illustrare la sua interpretazione del Vecchio e del Nuovo Testamento, che oggi noi possiamo leggere nelle antiche edizioni veneziane del 1519 e del 1527.
Oltre a dimostrare la perfetta concordia, appunto, tra i due testi, sia dal punto di vista storico che da quello della rivelazione, l’abate si spinge ad una lettura che egli stesso definisce ?spirituale? e che, se correttamente interpretata, ?mostra molte cose che debbono ancora accadere nei giorni finali?.
Dove, però, il legame tra Gioacchino e Galgano diviene stupefacente é proprio nell’aspetto che mi ha sempre intrigato di più in tutto l’enigma: la simbologia dei numeri!
Egli, infatti, che ne fa ampio uso, avverte spesso il lettore di non essere troppo rigoroso nel calcolo poiché ad essi assegna, invece, un più profondo significato ?mistico?.
Può non essere casuale ritrovare tutti i principali numeri della simbologia galganiana in medesima evidenza, come ad esempio, nel passo:
?Cosa significano il cinque e il sette? Cinque sono le tribù che avevano per prime ricevuto l’eredità della terra promessa e sette quelle che in seguito furono sistemate nei loro possedimenti (Le prime cinque sono le tribù di Ruben, Gad, Manasse, Efraim e Giuda; le altre sette sono quelle di Beniamino, Simeone, Zàbulon, Issacar, Aser, Nèftalì e Dan). Cinque sono le chiese principali ...e sette sono quelle di cui questo libro dell’Apocalisse scrive (Ap. 1,4-3,22). Cinque si crede che siano stati i pani d’orzo e sette quelli di frumento. Chi abbia voluto osservare questi particolari, capirà che nel cinque e nel sette sono contenuti grandi simboli, per cui anche il numero dodici é così importante. Infatti, cinque più sette fa dodici. D’altra parte, - affinché noi possiamo svelare le ragioni di tale importanza e quale sia la perfezione di questi numeri - é noto, a tutti coloro che sono bene istruiti, che la perfezione nell’uomo risiede nei cinque sensi corporei e nelle sette virtù. Così, colui che manca anche di uno solo di questi - vuoi della vista, o dell’udito, o del gusto, o dell’odorato, o del tatto, come vuoi anche della sapienza, o dell’intelligenza, o della saggezza, o del coraggio, o della conoscenza, o della pietà, o del timore - ha qualcosa in meno della perfezione? (da Enchiridion super Apocalypsim trad. di Andrea Tagliapietra).
Franco Cardini rimanda per l’etimologia del nome Galgano a quello della località denominata Gàlaad ed ecco cosa scrive Gioacchino: ?... così il profeta Elia - Colui che come dice il Signore nel Vangelo, ristabilirà ogni cosa (Matteo 17,11; Marco 9,12) - verrà in conclusione del periodo che é sotto la grazia?.
Per l’Antico Testamento, che omette ogni altra informazione, Elia, il Tisbita, é semplicemente uno degli abitanti di Gàlaad.
Impossibile approfondire un tema così vasto, ma anche ad una visione forzatamente superficiale, appare evidente il legame simbolico che unisce i due e le atmosfere della loro esistenza.
Le principali tematiche di fine secolo si ritrovano, con forme diverse, in entrambe le vicende; i riferimenti culturali, storici e teologici sono gli stessi; i messaggi che, attraverso i rispettivi simbolismi, vengono inviati al popolo dei fedeli nella sua totalità, hanno finalità comuni.
Oltre alla simbologia dei numeri, Gioacchino ricorre spesso all’uso di immagini capaci di rappresentare, in maniera semplice ed efficace, i misteri più profondi della Verità rivelata.
Anche in questo aspetto, ritrovo ulteriori motivi di legame e di affinità con l’agiografia galganiana.
L’importanza che sembra rivestire l’immagine del cerchio nel simbolismo galganiano, dalla Rotonda ad una sorta di circolarità di tutta la sua vicenda, ha il suo parallelo nel frequente ricorso di Gioacchino alla visione di Ezechiele e alle ruote del carro:
?le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutte e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota? (Ez. 1,16).
Fin dai tempi di san Gregorio Magno (590-604) si paragonava la Sacra Scrittura alla ruota:
?Che altro designa la ruota se non la Sacra scrittura, che gira da ogni parte per adeguarsi alla mente di chi l’ascolta e non é rallentata nel suo annuncio da alcun angolo, cioè da nessun errore? Gira da ogni parte, perché procede diritto e a terra, tra avversità e prosperità. Il cerchio dei suoi insegnamenti si trova ora in alto, ora in basso: ciò che é detto spiritualmente ai perfetti, si addice ai deboli secondo la lettera e quel che i piccoli intendono secondo la lettera, i dotti lo fanno salire in alto con l’intelligenza spirituale? (da Homiliae in Hiezechielem prophetam - Gregorio Magno).
Per gli storici della filosofia medievale, Gioacchino é, di volta in volta, ?veggente?, ?profeta?, ?falso-profeta?, ?teologo eterodosso?, ?proto-eresiarca? e quasi mai viene considerato un pensatore od un filosofo puro.
Per Franz Wiedmann, invece, Gioacchino é da considerare ?un pensatore d’urto?, cioè da annoverare tra coloro che:
?hanno dato uno scossone al modo di vivere e di pensare dei loro contemporanei, hanno provocato scandalo, si sono affaticati dietro alla realtà, cosa che non si può dire dei filosofi della riflessione?.
William Butler Yeats, nel suo breve racconto ?Le Tavole della Legge? scrive:
?Gioacchino riteneva che coloro il cui compito é vivere, e non rivelare, fossero dei bambini, e che il papa fosse il loro padre; ma insegnava segretamente che certi altri, gli eletti, il cui numero sarebbe andato vieppiù crescendo, erano stati scelti non per vivere, ma per rivelare la sostanza nascosta di Dio, che é colore e musica e soavità e dolce profumo; e che questi ultimi hanno un solo padre: lo Spirito Santo?.
Per Gioacchino, nella memoria storica é contenuto il futuro, nella sua essenza é presente tutto il contenuto profetico, l’indizio dell’avvenire.
Nel suo trattato sull’Apocalisse, Gioacchino afferma che la conoscenza dell’aritmetica spirituale permette di cogliere l’ordine ?vivente? della storia.
Se, come in Galgano, la simbologia dei numeri favorisce due differenti letture, una riferita al risultato, una seconda relativa all’essenza di ogni singolo numero protagonista, anche in Gioacchino troviamo riaffermato il principio per cui ogni numero possiede una sua propria essenza, mentre l’unione di più numeri ne genera una nuova che non é, necessariamente sempre, il risultato di un calcolo meramente matematico, bensì, spesso, un’armonica fusione delle singole valenze.
Così, ad esempio, Gioacchino ricorre ad un’immagine, che potrebbe sembrare poco ortodossa, per raffigurare la Trinità divina e che, in luogo del numero tre, solitamente utilizzato, rimanda al numero dieci: il famoso salterio a dieci corde che gli appare nella visione avuta durante il suo soggiorno a Casamari.
Egli ritiene così significativo questo nesso simbolico da intitolare l’opera che conclude la sua trilogia, proprio con il nome di questo strumento.
La composizione di questo libro risale al periodo 1183-1187; esso consta di tre volumi ?...perché tre sono le persone della divinità? come afferma lo stesso autore e tutto il secondo volume, dal significativo titolo De numero psalmorum et de perfectione vel significationae ipsius numeri, prende in esame il significato mistico e simbolico del numero 150, il totale dei Salmi secondo la Vulgata.
La maggior parte dell’opera di questo singolare pensatore é dedicata a dimostrare la concordia delle Scritture e la loro profonda correlazione, compresa la quale si può penetrare nella lettura del proprio destino. Il suo profetare é quindi ben diverso da quello di un indovino o di un illuminato, ma più simile a quello di chi ha decrittato un codice in grado di svelare il reale disegno divino.
Il suo messaggio é, tra l’altro, un invito all’unità, non solo quella spirituale, e, non a caso, anche nel conflitto in atto tra papato e impero, egli assume una posizione pacificatrice e di superamento delle divisioni.
Proprio nel tentativo di definizione del termine ?concordia?, quale si deve intendere relativamente alla lettura della sua opera più nota, Gioacchino sembra riassumere la mia idea di correlazione tra il XII e il XXI secolo, anche se, naturalmente, l’abate ha ben altra intenzione:
?Diciamo che propriamente la concordia é una somiglianza di eguale proporzione tra il Nuovo e il Vecchio Testamento. Dico eguale quanto al numero, non quanto alla dignità. Così un personaggio e un personaggio, un ordine e un ordine, una guerra e una guerra, si guardano, faccia a faccia, in virtù di una certa rassomiglianza?.
Se sostituissimo al Vecchio e al Nuovo Testamento il 12 ed il 21, avremmo l’esatta comprensione del mio pensiero su questa stravagante coincidenza numerica, con l’unica differenza, a voler proprio sottilizzare, che i due numeri non sono realmente speculari e simmetrici, anche se é questo l’effetto che producono a prima vista.
Si può, però, realmente affermare che, imprimendo ad essi un movimento rotatorio, ognuno conterrebbe l’altro e ciò avverrebbe in perfetta alternanza, esattamente come stanno a significare i due singoli numeri che ne sono alla base, uno e due, pari e dispari; mentre uno, il dodici, é il prodotto della Trinità per l’uomo, simbolicamente rappresentato dal numero quattro, l’altro, il ventuno, grazie alla medesima operazione matematica, é il risultato della Trinità per il sette, che, oltre ai suoi infiniti valori simbolici, ricorda anche la Bestia dell’Apocalisse.
Forse significa che la vedremo apparire nel ventunesimo secolo?
Sbagliava data Nostradamus?

Parte dodicesima

Federico Barbarossa sigla la pace di Venezia il 24 luglio 1177.
Alla fine di quello stesso anno, é ad Assisi, dove quattro diplomi da lui emanati, attestano il suo soggiorno, dal 19 dicembre al 3 gennaio 1178.
Da lì, riparte per Genova, poi per la Borgogna e infine rientra in Germania.
Nel 1180 é a Wurzburg, dove priva il ribelle cugino, Enrico il Leone, di tutti i suoi feudi e beni personali: Sassonia e Baviera vengono divise e passano nelle mani dei fedeli dell’imperatore.
Enrico viene poi esiliato in Inghilterra, dove soggiornerà presso il re Enrico II Plantageneto di cui é cognato.
Rafforzato così il suo potere in patria, Federico può ripensare all’Italia, forse, o soprattutto, per il prestigio che le deriva dall’essere, al tempo stesso, culla del grande e sacro Romano Impero e sede della cristianità.
Osservata con occhi moderni, la testardaggine di Federico appare quasi senza senso.
Egli dedica alla questione ?italiana? le maggiori risorse della sua esistenza.
Forse perché solo questo prestigio può consentirgli di governare nella sua terra, ribelle e difficile, dove la pacificazione é avvenuta a prezzo di dure lotte e di ampie concessioni ai maggiori principi tedeschi.
Però c’é comunque qualcosa di ostinato nel suo bisogno d’Italia, un’ossessione che lo seguirà fino alla morte, che appare inspiegabile.
Non vi é praticamente decennio, dal suo insediamento alla guida dell’impero avvenuto il 18 giugno 1155, senza che egli non scenda militarmente in Italia.
E, sebbene non riesca mai a domarla e dominarla pienamente, ne influenzerà profondamente le sorti, nel bene e nel male.
Non é certo mia intenzione giudicare l’operato di un personaggio complesso come Federico Barbarossa, ma, piuttosto, cercare di comprendere le ragioni che lo portarono a Monte Siepi nel 1185, per tentare di rimuovere almeno alcuni dubbi sull’intera vicenda di Galgano.
Nel corso della sua sesta ed ultima discesa in Italia, sempre nel 1185, Federico toglie, all’improvviso, a Firenze tutte le conquiste consolari sui nobili della campagna, mentre Siena gli rifiuta l’ingresso in città.
Ecco che la predizione di Galgano si avvera; forse Federico é ospite del castello di Chiusdino e scopre l’esistenza di Monte Siepi.
Colui che viene salutato come ?Imperatore dei Romani?, ?Cesare Augusto?, ?invittissimo?, ?gloriosissimo?, é dinanzi alla spada.
L’uomo ama i cerimoniali, lo ha già ampiamente dimostrato, ma pare sia, anche, molto superstizioso.
Ha chiesto di entrare, egli solo, nella Rotonda, da poco ultimata.
La luce del sole illumina la spada, l’acciaio risplende.
Pensa che se riuscisse a svellerla, potrebbe risolvere tutti i suoi problemi. Sarebbe l’eletto!
Chissà, forse é proprio lui a spezzarla nei ripetuti tentativi di estrarla dalla roccia; poi si dirà che sono stati tre malandrini, tre invidiosi, e così nascerà la leggenda.
Tra storia e invenzioni della fantasia, intorno a Galgano si raduna un intero universo.
Alcune fonti raccontano che, al trapasso di Galgano, erano presenti i vescovi di Massa e Volterra e alcuni monaci cistercensi, tra i quali due abati di ritorno dalla Francia, dopo aver partecipato al Capitolo Generale dell’Ordine.
Il santo venne sepolto alla loro presenza. Tutto accade tra il 1180 e il 1185.
Nello steso lasso di tempo, Lucio III, il lucchese Ubaldo Allucingoli, eletto papa a Velletri il 1 settembre 1181, deve vedersela con il Comune della città eterna, riuscendo a risiedere a Roma solo nell’inverno 1181/1182.
I nodi della controversia in atto tra il papa e i governanti dell’Urbe risiedono, innanzitutto, nella richiesta di riconoscimento papale del nuovo assetto istituzionale della città e nella antica disputa per Tuscolo, che i Romani vogliono assoggettare.
Lucio III chiede, per questo, l’aiuto di Cristiano di Magonza e delle sue truppe, in quel momento dislocate in Toscana, ed il loro arrivo riesce a disperdere i Romani e garantire al papa una certa tranquillità, fino all’improvvisa morte dello stesso Cristiano, deceduto per febbre maligna, proprio a Tuscolo, il 25 agosto 1183.
A Lucio III non rimane che la fuga da Roma, ormai in preda alla furia anticlericale, ed il successivo arrivo a Verona, dove incontra Barbarossa, reduce dalla pace di Costanza.
E’ esattamente l’anno che precede il processo di beatificazione di Galgano.
Lucio III non si sarebbe più allontanato da Verona, dove la morte lo sorprende il 25 novembre 1185.
Non passano neppure due anni, quando giunge in Europa, imprevista e inattesa, la notizia della caduta di Gerusalemme in mano al Saladino, dopo la sconfitta dell’esercito crociato ad Hattin.
Con essa, rientra in patria anche Guglielmo di Tiro, attento cronista e protagonista di spicco nella storia della crociate da quando, nel 1174, é stato nominato arcivescovo di Tiro.
Egli torna a predicare la III crociata per la riconquista della Città Santa, proprio in virtù dell’autorevolezza della sua figura.
Come novant’anni prima, dopo un regno dalle alterne fortune, segnato spesso da vicende drammatiche, si ritorna a mobilitarsi per la liberazione del Santo Sepolcro.
L’Europa cristiana, però, non é più quella della fine dell’XI secolo, molte cose sono cambiate e lo spirito della crociata non é, e non può essere, più lo stesso.
Anche l’esito di questa nuova spedizione, a cui peraltro hanno aderito i più potenti sovrani europei, Federico Barbarossa, Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, non consente la riconquista di Gerusalemme e la crociata si conclude con esiti ai limiti dell’insuccesso totale e con strascichi davvero imprevedibili in partenza.
Oltre all’improvvisa scomparsa di Barbarossa, Riccardo viene catturato, al suo ritorno in patria nel 1193, dal duca d’Austria, che lo terrà prigioniero per oltre un anno e mezzo, rilasciandolo solo dopo che sua madre in persona, Eleonora d’Aquitania, gli avrà consegnato il considerevole riscatto richiesto.
Filippo Augusto, invece, rientra in Francia subito dopo la presa di Acri, nel luglio del 1191, rientro che, dagli inglesi di Riccardo, viene considerato una vile diserzione ed un tradimento di fatto.
La crociata ottiene soltanto un accordo sulla libera circolazione dei pellegrini a Gerusalemme, stipulato nel 1192 tra Riccardo e Saladino, e la conquista di S.Giovanni d’Acri, un ben magro bottino per le ambizioni con cui era partita e per il prestigio dei suoi protagonisti.
E’ l’ultimo decennio del secolo; dal 14 aprile 1191 é papa Celestino III, Giacinto Borbone, 85enne romano della famiglia degli Orsini.
E’ lui che, il 25 aprile dello stesso anno, incorona imperatore Enrico VI insieme alla moglie Costanza.
Il groviglio di interessi che occupa, distraendoli, i protagonisti delle vicende legate a Monte Siepi é tale che, per qualche anno, tutti sembrano dimenticarsi dei luoghi del santo.
Non se ne può occupare neppure il successore di Barbarossa, troppo preso dal tentativo di entrare in possesso del regno normanno, eredità della moglie Costanza, obiettivo che Enrico VI riuscirà a raggiungere solo nel 1194, con la morte di Tancredi, che nobili locali, spalleggiati dal papato, avevano eletto re alla morte di Guglielmo II, nel 1189.
Per un profano é davvero difficile orientarsi negli intrecci, che in vario modo, legano le corti europee.
Spesso, i matrimoni sono l’alternativa alla guerra e le parentele incrociate nelle case regnanti sono all’ordine del giorno.
Il ruolo politico di questi matrimoni dei piani alti é palese anche allora e quello tra Enrico e Costanza non é che uno tra i molti, ma quando viene celebrato, il 26 gennaio 1186, appare come il coronamento del sogno imperiale di Federico.
Con l’impero formalmente domato e il regno normanno in eredità, la sua stirpe allunga finalmente le mani anche sull’Italia del sud e stringe in una morsa letale il nemico di sempre, il papato.
Gli avvenimenti successivi smentiranno tutte le premesse, ricordandoci che anche i grandi progetti possono essere toccati dall’imponderabile.
Il regno normanno sembra comunque distogliere Enrico da altre questioni sempre aperte.
Nel Natale del 1194 é a Palermo, dove viene incoronato re di Sicilia; nel 1196 é nuovamente in Italia; nel 1197 muore improvvisamente, scatenando una lotta per la successione che vedrà, schierati e contrapposti, da un lato Ottone IV con i ?guelfi? e dall’altro Filippo di Svevia con i ?ghibellini?.
Termini che mi riportano alla mente i banchi di scuola, Dante, come mi annoiava allora, così lontano dalla realtà che vivevo, pesante da digerire, difficile da comprendere.
Non riuscivo ad entusiasmarmi per quelle vicende, ad appassionarmi per quei personaggi, e mai avrei immaginato di ritrovarmi in una tale ansia di conoscenza da dover fare i conti anche con il Sommo Poeta, il padre della lingua italiana.
Pur essendo nato nel secolo successivo a quello che tanto mi interessa, gran parte della sua opera, com’è ovvio, subisce gli influssi più profondi di tutto ciò che era maturato fino ad allora, e gli echi delle imprese e dei mutamenti dei cento anni che lo precedono si avvertono e si ritrovano anche in molti dei suoi lavori.
Ottone IV alla fine avrà il sopravvento e, nel 1200, sarà nominato imperatore al posto di Filippo di Svevia, assassinato.
In seguito, in opposizione ad Ottone IV, verrà eletto re di Germania, nel 1211, Federico II di Svevia, che altri non é che il figlio di Enrico VI e Costanza d’Altavilla, nato nel 1194, a Jesi, durante la discesa del padre verso il regno di Sicilia.
Sarà, quella di Federico, una delle figure di maggior rilievo del XIII secolo, personalità di grande interesse, fortemente legato al sud del nostro paese, che ha arricchito con innumerevoli opere di cui possediamo ancora grandi e numerose testimonianze.
Anch’egli erede, in qualche misura, del XII secolo e di molte atmosfere nate proprio nel suo scorcio finale quale sintesi di un processo tortuoso e difficile, fonderà nuovo e antico, contribuendo a trasmetterci moltissimo di quel mondo
Anche innumerevoli altri personaggi del XIII secolo, la cui fama é giunta sino a noi, affondano ancora le loro radici in quegli irripetibili cento anni.
San Francesco e San Domenico per esempio, ma anche Federico II e Gengis Khan, Innocenzo III e Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno e Pier delle Vigne, Cielo d’Alcamo e Santa Chiara, Michele Scoto e Guido da Siena, tutti nati proprio negli ultimi anni del XII secolo.
Sono passati undici anni dalla consacrazione della Rotonda, é il 1196, una gran carestia interessa tutta l’Europa.
Enrico VI scende nuovamente in Italia, forse transita da Monte Siepi, emette un nuovo privilegio, dopo quello del 1191, ma la sua mente é sempre rivolta al sud.
Il 20 maggio del 1195, ha nominato suo fratello Filippo margravio della Tuscia, ma Filippo, dopo un anno, rientra in Germania dimettendosi e la carica si estingue.
Monte Siepi vive un periodo oscuro, nessuna testimonianza a documentare quanto accade in quegli anni.
Molti autori ipotizzano che, proprio a cavallo tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, avvenga la definitiva rottura e scissione tra i primi seguaci di Galgano e quelli che, in un certo senso, possono essere definiti gli usurpatori di Monte Siepi.
Dovrebbero coincidere con questo periodo anche la dispersione delle reliquie di Galgano e la nascita di nuovi eremi galganiani, come quelli di Vallebuona e di Catasta, nei pressi di Chiusi.
Sono passati ormai vent’anni dalla morte del santo, quando l’8 ottobre 1201, il vescovo di Volterra, Ildebrando Pannocchieschi, concede in perpetuo alla ?Chiesa del beato Galgano confessore? terreni a nord di Monte Siepi e buona parte di quelli compresi tra Chiusdino e l’eremo, oltre a terre tra i fiumi Cecina e Sellate.
Ci si deve muovere tra donazioni e atti, in modo assolutamente ipotetico, poiché l’intreccio di interessi e vicende rende il percorso tortuoso, mentre i principali protagonisti dell’enigma vivono nel continuo alternarsi dei rapporti di forza.
Sono gli anni che precedono l’avvio dei lavori di costruzione della grande abbazia, ma ecco che già, su questo periodo, si solleva la cortina di nebbia e mistero che ha avvolto Galgano ed il suo culto fino a quel momento ed iniziano ad intravedersi sprazzi di luce e certezza.
Ormai siamo di fronte al fatto compiuto, Monte Siepi é, a tutti gli effetti, un insediamento cistercense e tale rimarrà, fino all’istituzione della Commenda nel 1503, di cui si ha notizia nel Caleffo detto ?Lupa?, conservato nell’Archivio di Stato di Siena.
Galgano é ormai, ufficialmente, un santo e la sua immagine si definisce e si perfeziona.
Innanzitutto é un cavaliere e così appare nell’iconografia che lo riguarda.
E’ proprio il cavallo che, rifiutandosi di proseguire oltre, gli indica e lo conduce a Monte Siepi.
Essere cavalieri alla fine del XII secolo comporta diverse conseguenze.
Occorre essere facoltosi, poiché possedere un cavallo rappresenta un costo molto elevato, tanto per fare un paragone poco ortodosso, come avere una Ferrari oggi.
Costa l’animale e costa il suo mantenimento, sono pochi coloro che possono permetterselo.
Inoltre, proprio in quegli anni, si vanno definendo criteri di selezione e trasmissione che limitano e riducono le possibilità di divenire cavaliere, non essendolo di nascita.
Anche l’armamento richiede notevoli risorse e diviene sempre più costoso e complesso.
Come afferma Cardini nel suo interessante lavoro sulla guerra ?Quella antica festa crudele? edito da Mondadori: ?nel periodo che può essere considerato l’età aurea della cavalleria medievale, cioè grosso modo tra la metà dell’XI e i primi del XIII secolo, la carriera cavalleresca cominciava dall’infanzia e si protraeva attraverso le esperienze giovanili presso un senior, il tirocinio che culminava nell’addobbamento e infine l’aventure?.
Galgano compie questo percorso? Chi era il suo senior? Viene addestrato alla cavalleria?
Tutte domande senza risposta, come da copione.
Eppure si insiste sulla sua appartenenza alla cavalleria, proprio perché il rifiuto delle armi possa acquisire un ulteriore e nuovo significato simbolico.