lunedì 23 luglio 2007

Parte tredicesima

Uno degli ultimi ordini religioso militari ad apparire sulla scena del XII secolo é quello dei cavalieri Teutonici, nato a San Giovanni d’Acri tra il 1189 e il 1190 e divenuto ordine militare solo nel 1198, quando si trasferisce dalla Palestina in Prussia.
Il nord est europeo é l’ultima frontiera della cristianità e qui opererà l’ordine Teutonico, in Estonia, Lituania, Carlandia.
Sullo sfondo di questo scenario, le profezie apocalittiche di Gioacchino da Fiore (1138-1202), fondatore nel 1191 dell’ordine Florense, approvato nel 1196 da papa Celestino III.
L’incontro con questo singolarissimo personaggio, che, come si deduce facilmente dalle date, é un contemporaneo di Galgano, o meglio, lo vede nascere e anche morire, é stato paragonabile ad una vera e propria folgorazione.
I profondi legami simbolici tra i due sono tanti e tali da richiedere una digressione, per forza di cose superficiale, ma necessaria, intorno alla vita, alle opere ed al pensiero dell’abate calabrese, vero emblema del travaglio di tutto un secolo.
Mi si perdoni qualsiasi inesattezza, poiché il senso di queste righe é solo quello di stimolare una maggiore conoscenza di una delle più stravaganti e controverse figure di quei cento incredibili anni.
Occorre cercare altrove una seria, approfondita e rigorosa analisi, mentre qui mi preme di più sottolineare gli aspetti che mi hanno condotto a ritenere parte della sua opera come estremamente illuminante e significativa per i miei tentativi di fornire una spiegazione all’enigma.
Resta, comunque, il fatto che la produzione letteraria di Gioacchino si colloca, in buona parte, proprio negli ultimi anni di vita di Galgano e in quelli immediatamente successivi alla sua morte, in perfetta contemporaneità con la consacrazione della Rotonda, con l’inqusitio in partibus, con la proclamazione della santità dell’eremita e, anche, o forse soprattutto, con quelli di Enrico VI, dei primi diplomi a favore dei primi monaci cistercensi arrivati a Monte Siepi, gli stessi anni in cui, probabilmente, inizia a definirsi l’immagine agiografica dell’eremita di Chiusdino, che Rolando da Pisa fisserà per primo in forma manoscritta soltanto 40 anni dopo la morte del santo.
Naturalmente, anche per Gioacchino siamo in presenza di scarse informazioni sulla vita, con differenti posizioni tra gli studiosi, che si sono nel tempo riunite in due sostanziali diverse fonti di riferimento che divergono anche sulle sue origini e suoi natali.
Nativo di Celico, in Calabria, Gioacchino viene tradizionalmente ritenuto dalla maggioranza degli storici figlio di un notaio municipale del regno normanno, mentre, l’interpretazione di alcuni cenni autobiografici contenuti nelle sue opere, svelerebbe una sua origine contadina.
Nel 1167, Gioacchino abbandona la carriera di funzionario di cancelleria e intraprende il pellegrinaggio in Terra Santa dove, durante una visione avuta sul monte Tabor, gli viene dischiusa la comprensione di tutta la Sacra Scrittura.
Rientrato dalla Palestina, trascorre il periodo 1168-1170, prima come eremita nei pressi di un monastero greco sull’Etna, poi in una spelonca nei dintorni di Cosenza e, infine, ospite dell’abbazia di Sambucina, poco distante dalla cittadina calabrese.
Il vescovo di Catanzaro legittima la sua predicazione e lo ordina sacerdote.
Nel 1171, mentre si trova nel monastero di Corazzo, decide di lasciare il clero secolare e vestire l’abito bianco dei cistercensi.
Nel 1177 viene eletto abate dei cistercensi di S.Maria di Corazzo.
Dal gennaio del 1183 alla primavera del 1185, Gioacchino si trova a Casamari, importantissima abbazia cistercense dell’Italia centro-meridionale, dove riceve due ulteriori ?rivelazioni? sul mistero della Trinità che completano quella avuta sul monte Tabor e lo inducono ad avviare la produzione in parallelo delle sue tre maggiori opere: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum.
Nel maggio del 1184, a Veroli, avviene un incontro tra papa Lucio III e l’abate calabrese, che riceve dal pontefice l’incoraggiamento a proseguire nei suoi scritti.
Risalirebbe a questo periodo la stesura dell’Expositio de prophetia ignota.
Nel 1185, Gioacchino rientra a Corazzo e nel 1186 si reca a Verona per rendere omaggio al nuovo pontefice, Urbano III (1185-1187), da cui riceve un nuovo incitamento a proseguire nella scrittura.
Nella tarda primavera del 1186 esplode il dissenso con l’ordine cistercense, provocato dall’abbandono del monastero di Corazzo a favore dell’eremo di Petra Lata, in cui l’abate decide di ritirarsi seguito da alcuni discepoli.
E’ necessario ricordare che, nella tradizione monacale, prendere i voti significa anche sottoscrivere tre promesse: il voto di stabilità, ossia l’impegno a rimanere fino alla morte nella condizione di monaco e nel monastero; il veto di conversione dei costumi e, infine, il voto di obbedienza alla regola e all’abate.
Per tutti coloro che applicano la regola benedettina la professione deve avvenire alla presenza di tutti i monaci e il novizio che si appresta a professarli deve metterli per iscritto e firmarli, deponendo poi sull’altare la petizione, che sarà conservata nell’abbazia.
Ed é proprio in virtù della prima promessa che i cistercensi di Corazzo accusano Gioacchino di ?infedeltà? al suo monastero.
Paradossalmente, la medesima colpa era stata attribuita, cent’anni prima, allo stesso fondatore dei cistercensi, Roberto di Molesme, dopo il suo abbandono del monastero benedettino di Molesme, da lui stesso fondato nel 1075, per recarsi ad erigere, nel 1098, quello che, fino al 1119, veniva semplicemente chiamato Novum Monasterium, e che, in seguito a tale data, prese il nome di Cîteaux (in latino Cistercium),in uso, pare, per indicare la località in cui sorgeva l’abbazia, anche se la sua esatta etimologia é alquanto incerta.
In questa accezione sarebbe poi stato utilizzato anche per denominare l’ordine che lì vi era nato.
Nel 1188 però, il nuovo pontefice, Clemente III (1187-1191) esonera Gioacchino dai suoi doveri abbaziali nei confronti di Corazzo che viene, in cambio, incorporata dall’allora potente abbazia cistercense di Fossanova.
L’appoggio papale a Gioacchino sarebbe confermato anche da una lettera di Clemente III dell’8 giugno 1188, in cui gli viene rinnovata la fiducia e confermato l’invito a proseguire nella sua opera.
Nell’autunno del 1188, Gioacchino cerca sulla Sila un luogo dove fondare un nuovo monastero.
Nel 1190 ottiene alcune generose elargizioni da Tancredi, con cui tratta di persona, grazie alle quali può avviare la sua costruzione, e si trasferisce definitivamente a San Giovanni in Fiore.
Nei primi mesi del 1191, incontra a Messina, Riccardo Cuor di Leone, che attende in Sicilia condizioni meteorologiche migliori per proseguire verso la Palestina.
Secondo le antiche biografie dei cronisti cistercensi al seguito di Riccardo, l’abate fornisce al re inglese la chiave di lettura, o meglio, l’interpretazione del simbolo apocalittico del drago a sette teste e prevede la fine del Saladino sette anni dopo la caduta di Gerusalemme, in corrispondenza con la crociata dal sovrano Plantageneto.
Nell’estate del 1191, Gioacchino si trova sotto le mura di Napoli, assediata da Enrico VI, a cui profetizza la conquista non violenta del regno normanno di Sicilia, che, in quel momento, é ancora in mano a Tancredi.
Nel settembre del 1192, viene condannato dal Capitolo generale dell’Ordine cistercense come fugitivo e gli viene ordinato di rientrare immediatamente a Corazzo, lasciando il nuovo monastero di San Giovanni.
Gioacchino non esegue l’invito e avvia una lunga disputa che si concluderà con alcune strane coincidenze.
Infatti, il Venerdì Santo del 1196, é chiamato in qualità di confessore dall’imperatrice Costanza d’Altavilla alla corte di Palermo e, nell’agosto del medesimo anno, ottiene l’approvazione della regola del nuovo ordine Florense, in seguito andata perduta, da parte del pontefice Celestino III (1191-1198) che, il giorno 25, emette la bolla Cum in nostra, in cui si chiarisce anche la posizione ecclesiastica di Gioacchino nei riguardi dei cistercensi.
Il 21 febbraio 1197 assistiamo ad una nuova e ulteriore donazione imperiale al monastero di San Giovanni in Fiore, dopo la prima del 21 ottobre 1194, decisa in seguito all’incontro avvenuto tra Enrico VI, che sta recandosi a Palermo per essere incoronato, e l’abate di Celico, e quella del 6 marzo 1195.
Improvvisamente, nel settembre del 1197, muore Enrico VI, pare di malaria, forse contratta a Napoli durante l’assedio del 1191 e, agli inizi del 1198, scompare anche l’imperatrice Costanza d’Altavilla che, prima di morire, conferma le donazioni imperiali all’Ordine Florense con un diploma emanato da Messina nel mese di gennaio.
Nel 1201, l’arcivescovo Andrea di Cosenza dona a Gioacchino una piccola chiesa vicino a Petrafitta, nel cuore della Sila, dove l’abate inizia la costruzione di un eremo che chiama San Martino di Giove.
Qui viene sorpreso dalla morte il 30 marzo 1202 e le sue spoglie sono sepolte nella chiesa abbaziale di San Giovanni in Fiore.
L’iscrizione sulla sua tomba dice: ?Hic Abbas Floris/caelestis gratiae roris?.
Tredici anni dopo, l’ormai noto IV Concilio Lateranense condanna l’opera giovanile di Gioacchino De unitate seu essentia Trinitatis.
La salita al soglio pontificio di Onorio III, vede nuovamente la difesa dell’ortodossia di Gioacchino e del suo Ordine, che viene ulteriormente ribadita dal pontefice nella bolla Ex parte dilectorum filiorum, inviata, nel 1221, all’arcivescovo di Cosenza e al vescovo di Bisignano, nella quale l’abate calabrese viene definito ?vir catholicus?.
Questa lunga parentesi biografica dimostra inequivocabilmente che lo scenario é il medesimo di Galgano, le stesse tensioni, le interminabili dispute, il serrato confronto che, non a caso, deve sbocciare, secondo Gioacchino, nella Concordia, ch’egli ricerca e ritiene di avere trovato nella Sacra Scrittura e che illustra nel suo lavoro forse più significativo.
Non fu questa solo l’opera più diffusa dell’abate, almeno a giudicare dal numero dei manoscritti che ci sono pervenuti o di cui abbiamo notizia, ma, anche, l’unica che egli stesso definisce compiuta nel 1200.
Cinque volumi, di cui il quinto uguale per estensione agli altri quattro, sono necessari a Gioacchino per illustrare la sua interpretazione del Vecchio e del Nuovo Testamento, che oggi noi possiamo leggere nelle antiche edizioni veneziane del 1519 e del 1527.
Oltre a dimostrare la perfetta concordia, appunto, tra i due testi, sia dal punto di vista storico che da quello della rivelazione, l’abate si spinge ad una lettura che egli stesso definisce ?spirituale? e che, se correttamente interpretata, ?mostra molte cose che debbono ancora accadere nei giorni finali?.
Dove, però, il legame tra Gioacchino e Galgano diviene stupefacente é proprio nell’aspetto che mi ha sempre intrigato di più in tutto l’enigma: la simbologia dei numeri!
Egli, infatti, che ne fa ampio uso, avverte spesso il lettore di non essere troppo rigoroso nel calcolo poiché ad essi assegna, invece, un più profondo significato ?mistico?.
Può non essere casuale ritrovare tutti i principali numeri della simbologia galganiana in medesima evidenza, come ad esempio, nel passo:
?Cosa significano il cinque e il sette? Cinque sono le tribù che avevano per prime ricevuto l’eredità della terra promessa e sette quelle che in seguito furono sistemate nei loro possedimenti (Le prime cinque sono le tribù di Ruben, Gad, Manasse, Efraim e Giuda; le altre sette sono quelle di Beniamino, Simeone, Zàbulon, Issacar, Aser, Nèftalì e Dan). Cinque sono le chiese principali ...e sette sono quelle di cui questo libro dell’Apocalisse scrive (Ap. 1,4-3,22). Cinque si crede che siano stati i pani d’orzo e sette quelli di frumento. Chi abbia voluto osservare questi particolari, capirà che nel cinque e nel sette sono contenuti grandi simboli, per cui anche il numero dodici é così importante. Infatti, cinque più sette fa dodici. D’altra parte, - affinché noi possiamo svelare le ragioni di tale importanza e quale sia la perfezione di questi numeri - é noto, a tutti coloro che sono bene istruiti, che la perfezione nell’uomo risiede nei cinque sensi corporei e nelle sette virtù. Così, colui che manca anche di uno solo di questi - vuoi della vista, o dell’udito, o del gusto, o dell’odorato, o del tatto, come vuoi anche della sapienza, o dell’intelligenza, o della saggezza, o del coraggio, o della conoscenza, o della pietà, o del timore - ha qualcosa in meno della perfezione? (da Enchiridion super Apocalypsim trad. di Andrea Tagliapietra).
Franco Cardini rimanda per l’etimologia del nome Galgano a quello della località denominata Gàlaad ed ecco cosa scrive Gioacchino: ?... così il profeta Elia - Colui che come dice il Signore nel Vangelo, ristabilirà ogni cosa (Matteo 17,11; Marco 9,12) - verrà in conclusione del periodo che é sotto la grazia?.
Per l’Antico Testamento, che omette ogni altra informazione, Elia, il Tisbita, é semplicemente uno degli abitanti di Gàlaad.
Impossibile approfondire un tema così vasto, ma anche ad una visione forzatamente superficiale, appare evidente il legame simbolico che unisce i due e le atmosfere della loro esistenza.
Le principali tematiche di fine secolo si ritrovano, con forme diverse, in entrambe le vicende; i riferimenti culturali, storici e teologici sono gli stessi; i messaggi che, attraverso i rispettivi simbolismi, vengono inviati al popolo dei fedeli nella sua totalità, hanno finalità comuni.
Oltre alla simbologia dei numeri, Gioacchino ricorre spesso all’uso di immagini capaci di rappresentare, in maniera semplice ed efficace, i misteri più profondi della Verità rivelata.
Anche in questo aspetto, ritrovo ulteriori motivi di legame e di affinità con l’agiografia galganiana.
L’importanza che sembra rivestire l’immagine del cerchio nel simbolismo galganiano, dalla Rotonda ad una sorta di circolarità di tutta la sua vicenda, ha il suo parallelo nel frequente ricorso di Gioacchino alla visione di Ezechiele e alle ruote del carro:
?le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutte e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota? (Ez. 1,16).
Fin dai tempi di san Gregorio Magno (590-604) si paragonava la Sacra Scrittura alla ruota:
?Che altro designa la ruota se non la Sacra scrittura, che gira da ogni parte per adeguarsi alla mente di chi l’ascolta e non é rallentata nel suo annuncio da alcun angolo, cioè da nessun errore? Gira da ogni parte, perché procede diritto e a terra, tra avversità e prosperità. Il cerchio dei suoi insegnamenti si trova ora in alto, ora in basso: ciò che é detto spiritualmente ai perfetti, si addice ai deboli secondo la lettera e quel che i piccoli intendono secondo la lettera, i dotti lo fanno salire in alto con l’intelligenza spirituale? (da Homiliae in Hiezechielem prophetam - Gregorio Magno).
Per gli storici della filosofia medievale, Gioacchino é, di volta in volta, ?veggente?, ?profeta?, ?falso-profeta?, ?teologo eterodosso?, ?proto-eresiarca? e quasi mai viene considerato un pensatore od un filosofo puro.
Per Franz Wiedmann, invece, Gioacchino é da considerare ?un pensatore d’urto?, cioè da annoverare tra coloro che:
?hanno dato uno scossone al modo di vivere e di pensare dei loro contemporanei, hanno provocato scandalo, si sono affaticati dietro alla realtà, cosa che non si può dire dei filosofi della riflessione?.
William Butler Yeats, nel suo breve racconto ?Le Tavole della Legge? scrive:
?Gioacchino riteneva che coloro il cui compito é vivere, e non rivelare, fossero dei bambini, e che il papa fosse il loro padre; ma insegnava segretamente che certi altri, gli eletti, il cui numero sarebbe andato vieppiù crescendo, erano stati scelti non per vivere, ma per rivelare la sostanza nascosta di Dio, che é colore e musica e soavità e dolce profumo; e che questi ultimi hanno un solo padre: lo Spirito Santo?.
Per Gioacchino, nella memoria storica é contenuto il futuro, nella sua essenza é presente tutto il contenuto profetico, l’indizio dell’avvenire.
Nel suo trattato sull’Apocalisse, Gioacchino afferma che la conoscenza dell’aritmetica spirituale permette di cogliere l’ordine ?vivente? della storia.
Se, come in Galgano, la simbologia dei numeri favorisce due differenti letture, una riferita al risultato, una seconda relativa all’essenza di ogni singolo numero protagonista, anche in Gioacchino troviamo riaffermato il principio per cui ogni numero possiede una sua propria essenza, mentre l’unione di più numeri ne genera una nuova che non é, necessariamente sempre, il risultato di un calcolo meramente matematico, bensì, spesso, un’armonica fusione delle singole valenze.
Così, ad esempio, Gioacchino ricorre ad un’immagine, che potrebbe sembrare poco ortodossa, per raffigurare la Trinità divina e che, in luogo del numero tre, solitamente utilizzato, rimanda al numero dieci: il famoso salterio a dieci corde che gli appare nella visione avuta durante il suo soggiorno a Casamari.
Egli ritiene così significativo questo nesso simbolico da intitolare l’opera che conclude la sua trilogia, proprio con il nome di questo strumento.
La composizione di questo libro risale al periodo 1183-1187; esso consta di tre volumi ?...perché tre sono le persone della divinità? come afferma lo stesso autore e tutto il secondo volume, dal significativo titolo De numero psalmorum et de perfectione vel significationae ipsius numeri, prende in esame il significato mistico e simbolico del numero 150, il totale dei Salmi secondo la Vulgata.
La maggior parte dell’opera di questo singolare pensatore é dedicata a dimostrare la concordia delle Scritture e la loro profonda correlazione, compresa la quale si può penetrare nella lettura del proprio destino. Il suo profetare é quindi ben diverso da quello di un indovino o di un illuminato, ma più simile a quello di chi ha decrittato un codice in grado di svelare il reale disegno divino.
Il suo messaggio é, tra l’altro, un invito all’unità, non solo quella spirituale, e, non a caso, anche nel conflitto in atto tra papato e impero, egli assume una posizione pacificatrice e di superamento delle divisioni.
Proprio nel tentativo di definizione del termine ?concordia?, quale si deve intendere relativamente alla lettura della sua opera più nota, Gioacchino sembra riassumere la mia idea di correlazione tra il XII e il XXI secolo, anche se, naturalmente, l’abate ha ben altra intenzione:
?Diciamo che propriamente la concordia é una somiglianza di eguale proporzione tra il Nuovo e il Vecchio Testamento. Dico eguale quanto al numero, non quanto alla dignità. Così un personaggio e un personaggio, un ordine e un ordine, una guerra e una guerra, si guardano, faccia a faccia, in virtù di una certa rassomiglianza?.
Se sostituissimo al Vecchio e al Nuovo Testamento il 12 ed il 21, avremmo l’esatta comprensione del mio pensiero su questa stravagante coincidenza numerica, con l’unica differenza, a voler proprio sottilizzare, che i due numeri non sono realmente speculari e simmetrici, anche se é questo l’effetto che producono a prima vista.
Si può, però, realmente affermare che, imprimendo ad essi un movimento rotatorio, ognuno conterrebbe l’altro e ciò avverrebbe in perfetta alternanza, esattamente come stanno a significare i due singoli numeri che ne sono alla base, uno e due, pari e dispari; mentre uno, il dodici, é il prodotto della Trinità per l’uomo, simbolicamente rappresentato dal numero quattro, l’altro, il ventuno, grazie alla medesima operazione matematica, é il risultato della Trinità per il sette, che, oltre ai suoi infiniti valori simbolici, ricorda anche la Bestia dell’Apocalisse.
Forse significa che la vedremo apparire nel ventunesimo secolo?
Sbagliava data Nostradamus?

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