lunedì 23 luglio 2007

Parte quindicesima

Anche nella leggenda che rimanda alla fondazione del santuario di Mont Saint-Michel, conservata in una pergamena del X secolo, la simbologia numerica sembra giocare un ruolo paragonabile a quella galganiana, con l’uso più o meno degli stessi numeri chiave.
Vi si narra che il vescovo Aubert, dopo tre apparizioni di San Michele a cui non crede, pensando di essere ingannato da Satana, e dopo altri eventi miracolosi avvenuti sul Monte-Tombe, nome con il quale era noto quel luogo fino all’VIII secolo, inviò suoi legati al santuario pugliese del Gargano con il compito di ottenere qualche reliquia del Santo che lì era apparso per la prima volta.
Poi fece edificare la chiesa nel posto che un ulteriore evento miracoloso aveva indicato come sede delle sue fondamenta e vi insediò una collegiata di dodici canonici.
Persino partendo da questo splendido gioiello di architettura del nord della Francia, ritroviamo scenari familiari, con gli stessi protagonisti che ormai fanno parte dell’universo galganiano.
Ecco così, che l’abate più illustre di Mont Saint-Michel fu Robert de Thorigny, che condusse il monastero ininterrottamente per 32 anni, dal 1154 al 1186 e fu anche consigliere di Enrico II Plantagento.
Tra le mura della sua abbazia, transitarono in quegli anni, quasi gli stessi della vita di Galgano: Ugo, arcivescovo di Rouen; Luigi VII, re di Francia; ovviamente Enrico II, re d’Inghilterra, oltre a due futuri papi, vari vescovi e numerosi abati.
Alla sua morte lasciò più di centoquaranta opere, tra cui un’interessante ?Historia Montis Sancti Michaelis?.
Possiamo ritrovare il medesimo peso simbolico del numero dodici persino presso il popolo nomade degli Indiani Sioux per i quali la consacrazione di un altare del fuoco deve avvenire con il seguente rituale:
?Su questo sacro luogo, Colui Che Si Estende cominciò a comporre l’altare. Prima prese un bastoncino, indicò con esso le sei direzioni e infine tracciò un piccolo cerchio al centro: questo per noi rappresenta la casa di Wakan-Tanka (il Grande Spirito). Quindi, con lo stesso bastoncino, dopo aver indicato una seconda volta le sei direzioni (6+6=12 é per questo che si ripete l’operazione??) Colui Che Si Estende tracciò una riga dal punto ovest alla circonferenza del cerchio interno. Ne tracciò un’altra da est alla stessa circonferenza e, analogamente, una terza da nord e una quarta da sud. Costruendo l’altare in questo modo si vede che tutto porta al centro, o meglio, vi ritorna; e il centro, che é Wakan-Tanka, é si in quel punto, ma noi sappiamo che in realtà é in ogni dove? (Alce Nero - La Sacra pipa - Rusconi).
Persino nella Ka’ba, uno dei più antichi santuari del mondo, si compie un rito che si completa con una simbologia numerica non dissimile dalla nostra.
La Tawâf, ovvero il rito della circumambulazione del santuario che esprime chiaramente la relazione esistente tra lo stesso e il movimento celeste, viene eseguita sette volte, secondo il numero delle sfere celesti, tre volte di corsa e quattro a passo normale.
Qual’é la necessità di differenziare questo percorso proprio in tale modo?
Forse perché é l’unico il cui prodotto dia 12?
Difficile riprendere il discorso da dove l’avevamo interrotto senza sentirsi un po’ smarriti.
A volte, la vastità dell’argomento mi provoca sensazioni poco stimolanti che vanno dal senso di impotenza ad uno stato di confusione da overdose; in altri momenti, invece, mi sento come un bambino che vorrebbe bruciare tutte le tappe, o come uno straniero in terre sconosciute.
Avverto la mancanza di esatte terminologie, trovo la mia scrittura ancora troppo infantile, soffro per la mia impreparazione e, forse, temo eccessivamente il giudizio altrui.
Galgano ha vinto anche sulle mie emozioni e al diavolo le indecisioni, i dubbi, i timori, lo sconforto, la frustrazione.
Nessuno, credo, potrà accusarmi di non essere uno storico e nemmeno un filosofo, di non essere preparato a sufficienza o di avere spacciato per verità assolute semplici intuizioni, curiose stranezze, intriganti avvenimenti.
Nessuno potrà, ne sono certo, attribuire a queste pagine altra intenzione da quella abbondantemente dichiarata di voler essere solo uno stimolo in più alla ricerca e allo studio, quelli necessariamente ?seri? e veri, di cui Galgano ha ancora assoluto bisogno e, con lui, tutto il suo secolo.
Procediamo, dunque, nell’esposizione dei tratti più significativi della sua figura.
Che tipo di cavaliere sia Galgano non é dato sapere, se inquadrato in qualche struttura militare, ma non si hanno, naturalmente, notizie di una sua partecipazione ad azioni belliche, o se ?errante?, secondo la moda del tempo.
Poco a poco, la cavalleria diviene casta, costruisce i suoi modelli comportamentali, elabora i suoi codici, definisce le regole.
A Chiusdino, in via della Cappella, esiste un edificio che si ritiene essere stato la casa natale di Galgano.
Chissà se muoveva veramente da qui per le sue scorribande nella regione? Se era inserito in un gruppo di cavalieri del borgo, se prestava corvè e in che occasioni?
Il primo dei grandi ordini cavallereschi era nato nel 1099, quando il monaco amalfitano frà Gerardo, che dirigeva una chiesa ed un ospedale a Gerusalemme, fonda l’Ordine Ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme, che il suo successore, Raimondo de Puy, trasforma in organizzazione militare.
Sarà l’unico a giungere fino ai giorni nostri, conservando le prerogative di sovranità e personalità giuridica, pur mutando il suo nome in quello di Cavalieri di Malta.
Leggende senza alcun fondamento storico, fanno risalire al XII secolo persino la costituzione dell’Ordine della Giarrettiera, che sarebbe stato fondato da Riccardo Cuor di Leone durante l’assedio di Acri del 1190, distribuendo legacci di cuoio ai suoi uomini perché potessero riconoscersi nella mischia.
Anche la lunga e faticosa ?Reconquista? della Spagna araba generò numerosi ordini cavallereschi, alcuni dei quali molto noti, come quello di Calatrava (1158) o di Sant’Jago della Spada (1170) o di Alcantara (1176).
Persino nella fredda e lontana Danimarca, re Canuto VI fonda, nel XII secolo, l’Ordine dell’Elefante per celebrare un crociato danese che si narrava avesse ucciso l’animale nel corso di uno scontro con i saraceni.
Singolare, poi, quello costituito dal conte Raimondo Beringhieri di Barcellona nel 1149: per esprimere la sua gratitudine alle donne che avevano respinto un’incursione saracena a Tortosa, armate di scuri e di mazze, egli istituì per loro l’Ordine delle Dame della Scure, cui attribuì numerosi privilegi.
L’Ordine, che successivamente prese il nome delle Dame del Passatempo, si estinse in pochi anni.
Naturalmente, non tutta la cavalleria apparteneva agli ordini religiosi, bensì erano questi un aspetto del più vasto fenomeno epocale e ne erano, allo stesso tempo, ispirati ed ispiratori.
Spesso il cavaliere era anche un predone, un guerriero spietato, a volte organizzato in bande dedite al saccheggio ed alle rapine.
Oppure agiva, da solo o in gruppo, come un vero e proprio mercenario.
Masnadieri erano chiamati i gruppi di servi soldati, con un termine che, oggi, ha assunto un significato esclusivamente dispregiativo.
Anche per tutti questi motivi, si cercava, sempre più, di limitare l’accesso alla cavalleria al fine di renderla più governabile e controllabile.
Ecco perché, in buona sostanza, cavalieri si nasce e non si diventa più, se non per meriti eccezionali.
Nel suo famoso vers ?Pos de chantar m’es pres talenz?, il grande trovatore Guglielmo IX d’Aquitania, proprio agli inizi del XII secolo, scrive:
?Molto sono stato amabile e gaio,
ma Nostro Signore più non lo vuole:
ormai non posso sopportare il fardello,
tanto sono vicino alla fine.
Tutto ho lasciato quanto amare solevo,
cavalleria e orgoglio;
e poiché questo piace a Dio l’accetto,
ed Egli, che mi prenda con sé!?.
Chissà se Galgano ha mai udito cantare i vers di Guglielmo?
Alla sua scuola e con il suo esempio era fiorita la grande stagione dell’amore cortese, dilagata poi in tutte le corti europee in rivoli di trascrizioni, rielaborazioni, rifacimenti, interpretazioni, esecuzioni di ogni genere.
Forse, in sella al suo destriero, lungo l’antica strada delle capanne, Galgano pensava alla cavalleria e all’orgoglio di Guglielmo, mentre galoppava verso il castello di Miranduolo.
Non si hanno notizie di tornei nei castelli della zona, ma é probabile che qualcuno vi si svolgesse; si erano così diffusi, nonostante l’ostilità della Chiesa, che il concilio del 1179 sentì l’esigenza di vietarne lo svolgimento.
Anche Galgano avrebbe potuto parteciparvi, nel tipico abbigliamento del cavaliere di allora: cotta di maglia al polpaccio, una lunga lancia e lo scudo ?a mandorla?, sproni dorati e cintura, l’elmo a tronco di cono.
Dal castello di Miranduolo si prosegue, ancora oggi, lungo un sentiero ai piedi del Poggio di Fogari, per poi tornare alla Merse.
E’ possibile discendere il fiume, seguendo alcuni sentieri lungo le sue sponde, e raggiungere la zona delle Vene di Ciciano, dove copiose sorgenti riversano nel fiume circa 930 litri d’acqua al secondo.
Declivi, colline, rivoli, boschi, impervie salite, atmosfere d’altri tempi, anche nei nomi dei fossi che vi nascono, come Mangiagatti, Spiritello, Boccastrega.
Querceti, roveri, castagni, lecci, carpini, rendono quasi esclusivamente boschiva la vegetazione, mentre in quest’area, racchiusa nel Parco Naturale della Pietra, possiamo ancora incontrare martore, puzzole, gufi, falchi, poiane, merli acquaioli, martin pescatori, sparvieri e caprioli.
L’arrivo dei cistercensi a Monte Siepi segnò anche l’inizio di una lunga serie di interventi nel territorio circostante con attività di prosciugamento e bonifca di terreni paludosi e di inalveamento di parte delle acque della Merse per ottenere energia idraulica.
L’abbazia, infatti, possedeva un mulino, un ferriera e una gualchiera per la lavorazione dei panni.
L’azione dei monaci sul territorio circostante si sviluppò nei modi più disparati e, oltre alla realizzazione delle consuete opere agricole ed idrauliche, vide la loro partecipazione diretta a molte attività tipiche di quelli che, oggi, potremmo definire operai specializzati.
Molti parteciparono all’edificazione del Duomo di Siena, dopo che fra Vernaccio venne eletto per primo Operaio del Duomo nel 1257.
Altri invece furono Camerlenghi e tesorieri della Repubblica Senese, con incarichi di grande prestigio e potere.
In circa 150 anni dal loro arrivo, i Cistercensi riuscirono anche ad entrare in possesso di vasti beni e delle loro rendite.
Sparsi in un ampio territorio che comprendeva località anche molto distanti e diverse tra loro, portarono i monaci galganiani ad essere presenti, tra l’altro, anche a Frosini, Monticiano, Luriano, Moverbia, Castiglione della Pescaia, Pomarance, Asciano, Montalceto, Orgia, Montalcino, Montepescali, Grosseto, Siena Poggibonsi, San Giminiano, quale risultato di una attenta politica di permute e compravendite, sostenute da abbondanti e generose donazioni.
Oltre che cavaliere, Galgano é anche nobile, o meglio ancora, di nobile discendenza.
Assegnare origini aristocratiche a figure in odore di santità era abitudine diffusa, sia per ‘nobilitarne? in qualche modo il culto, sia per attrarre realmente i rampolli della nobiltà feudale nell’orbita della professione ecclesiastica. Questa tendenza contribuì non poco a preparare il terreno alle chiusure del secolo successivo e vide la sua massima affermazione proprio verso la fine del XII secolo.
Scorrendo le vite dei santi, vissuti o canonizzati in quei cento anni, si ritrovano caratteristiche tali da poter individuare almeno alcuni fenotipi guida: caratteristiche comuni che ricorrono nella maggior parte dei personaggi esaminati.
La nobiltà delle origini, in tutti i casi, rafforza lo spessore dei protagonisti e di chi ne promuoveva il culto. Galgano é un laico che, all’improvviso, decide di ?lasciare il secolo?.
Non é un religioso, non un chierico, non un monaco, né un prelato e nemmeno un canonico, anche se, in seguito, si sentirà il bisogno di inserirlo in un organismo religioso affermando che, prima del trapasso, era divenuto oblato del monastero cistercense delle Tre Fontane di Roma.
Piccolissima digressione, perché proprio le Tre Fontane?
Personalmente credo che ciò avvenga per gli interessi che quel monastero vanta nell’area maremmana e persino nella valle dell’Elsa, dove nel 1161 possiede ancora il castello di Scerpenna; risalgono addirittura al X secolo il possesso di Ansedonia e di proprietà all’isola del Giglio, quando il monastero non é ancora divenuto cistercense, cosa che avviene il 25 ottobre 1140, quando Bernardo Paganelli di Montemagno, futuro papa con il nome di Eugenio III, prende possesso del monastero abbandonato per la malaria.
I suoi beni risalgono addirittura alla donazione di terre dislocate in Toscana e nell’Alto Lazio, fatta da Carlo Magno grazie alla quale le Tre Fontane ricevono esenzioni e dipendono direttamente dal Pontefice.
Il collegamento tra Galgano e questo monastero poteva avere quindi anche una funzione di recupero, o meglio ancora, di saldatura tra i vasti possedimenti che ancora restavano all’abbazia romana e quelli che la nuova struttura sorta a Monte Siepi avrebbe potuto acquisire nel tempo.
Ma questa é naturalmente solo un’ipotesi, anche poco approfondita.
Se nel cristianesimo delle origini, il martirio era stato inevitabilmente motivo di santità, nel XII secolo, in un’Europa ormai quasi interamente cristianizzata, era necessario affidarsi ad un’immagine di santità profondamente mutata e in rapida trasformazione.
Capacità taumaturgiche riconosciute, opere di carità, miracoli, rappresentano sempre le basi della santità; la nobiltà risulta alquanto gradita e non é difficile intuirne i motivi.
Possiamo così incontrare, giusto per citarne qualcuno tra i più famosi, Alberto Magno, Bernardo di Pagliara, Bernardo da Parma e lo stesso Bernardo per eccellenza, quello di Clairvaux con i suoi fratelli, Canuto Laward, duca di Schleswig, San Drogone, eremita fiammingo, Elena di Skövde, martire svedese di nobile famiglia, Felice di Valios, San Galdino, arcivescovo di Milano, della famiglia Valvassori della Scala, Gilberto di Sempringham, Giordano di Sassonia, della nobile famiglia degli Eberstein, Giovanni Bono, Goffredo di Kappenberg, Guglielmo di Vercelli, che visse due anni nel cavo di un albero, Ida di Boulogne, madre del conquistatore di Gerusalemme, Goffredo di Buglione, San Lorenzo, arcivescovo di Dublino, Magno Erlendson, conte delle isole Orcadi, Nersets Klajetzi, cattolico armeno, San Norberto, fondatore dei Premonstatensi e figlio del conte di Gemery, Eberardo di Salisburgo, Pietro il Venerabile, dei signori di Montboissier, Ranieri di Pisa, Benedetto Ricasoli, Roberto di Molesme, fondatore dei Cistercensi, Ubaldo, vescovo di Gubbio, della nobile famiglia dei Baldassini, Ugo di Cluny, Umberto III di Savoia.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, poiché, su qualche centinaio di santi, vissuti o canonizzati nel XII secolo, la maggior parte vanta reali o presunte origini nobiliari.
Abbiamo poi anche, quale segno di una parziale attenzione ai gruppi emergenti della società, alcuni rappresentanti dei mestieri che venivano sviluppandosi e affermandosi in tutta la cristianità, come Omobono, patrono dei mercanti e dei sarti, e Gerardo dei Tintori con, infine, santi davvero originali come Cristina Mirabilis, umile pastorella belga in grado di resuscitare o Gerlach, nobile irlandese che, al rientro in patria dal pellegrinaggio in Terra Santa, visse come eremita nel cavo di una quercia, dove morì nel 1172 oppure il monaco basiliano Luca di Messina e la vergine reclusa Verdiana.
Nomi che, per molti, non significano nulla, eppure, allora come oggi, poter vantare di aver dato i natali ad un santo o possederne le reliquie, magari miracolose, significava divenire meta di grandi folle, con tutti i vantaggi del caso.
Forse possiamo farcene un’idea vedendo ciò che accade per Padre Pio o per la Madonnina della Lacrime di Civitavecchia, per Lourdes o per Fatima, per frà Dolcino o per Natuzza Evolo.
Certo, le differenze sono enormi, il mondo é cambiato, ma, forse, gli uomini sono cambiati meno.
Il bisogno di spiritualità, anche indipendentemente dal tipo di fede, non é minore oggi di allora e certi recenti fenomeni possono testimoniarlo in modo evidente.
Stranamente, o forse no, esso conduce anche alla riscoperta di antiche manifestazioni di fede che, guarda caso, affondano le loro radici più solide proprio nel cuore del XII secolo.
Possiamo così vedere tornare di moda culti come quello Zen o forme di religiosità singolari come il Sufismo e scoprire, in entrambi i casi, che quei fantastici cento anni sono stati decisivi anche per fenomeni alquanto lontani geograficamente, ma, nonostante questo, estremamente vicini e contigui per affinità tematiche e per atmosfere comuni.
Dopo essere nato e rimasto confinato in Cina dal 600 al 1100 circa, con il periodo dei Grandi maestri dell’era d’oro compreso tra il 630 ed il 960, lo Zen viene introdotto in Giappone, dove acquista subito nuova linfa e diffusione, da un contemporaneo del nostro eremita, Eisai (1141-1215), sostenitore della scuola Rinzai, mentre il fondatore giapponese della scuola Soto Zen fu Eihei Dogen Kigen (1200-1253).
Se, anche per il Sufismo, la nascita ufficiale é da collocare introno al 600-650, la sua riconosciuta età d’oro é certamente il XII secolo.
Alcuni dei più grandi maestri sufi di tutti i tempi sono contemporanei di Galgano come Yahya Suhrawardi (1155-1191), morto in circostanze misteriose, forse fatto uccidere da Saladino per il suo pensiero considerato eretico e fonte di divisione nel mondo musulmano, e per questo noto anche come ?il maestro assassinato? o ?il maestro martire?, oppure come Farid al-Din ‘Attar (1140-1230), la cui opera é tra le più note e tradotte dell’immensa produzione dei pensatori e poeti sufi.
Un passo di ‘Attar potrebbe perfettamente adattarsi al messaggio di pace e di tolleranza di Galgano.
Egli, infatti, scrive:
?So per scienza certa che domani, davanti alla Porta divina, le settantadue sette (mi viene da sorridere davanti all’ennesimo multiplo del 12) non saranno che una. Non c’é motivo che dica che questa é cattiva e quell’altra é buona, dal momento che, se guardi bene, sono tutte alla ricerca dell’Essere supremo. Fa, Signore, che i nostri cuori abbiano solo te e respingano lontano da Te il fanatico?.
Colui, invece, che elabora la ?teoria dell’equilibrio?, che influenzerà profondamente il sufismo, é Abù Bakr Muhammad Ibn al-’Arabi (1165-1240) che scrive:
?Il mio cuore é in grado di assumere qualsiasi forma: chiostro di monaci cristiani, tempio di idoli, prateria di gazzelle, pietranera dei pellegrini, Tavola della Legge mosaica, Corano... L’amore é il mio credo e la mia fede?.
Famoso per le sue doti psichiche, capace di premonizioni e comunicazioni telepatiche con vivi e morti, dotato anche di poteri terapeutici, Ibn ‘Arabi ha lasciato una vastissima opera letteraria, rimasta incompleta, che conta oltre 400 titoli.
Infine, nel medesimo anno del trapasso di Galgano e della nascita di San Francesco, nasce al Cairo, Ibn Al-Faridh (1181-1235), i cui luoghi di culto, la tomba, il tempio ed il cimitero di Qarafa al cui interno vennero innalzati, sono ancora oggi meta di pellegrinaggi, mentre le sue liriche vengono tuttora eseguite durante i concerti spirituali e le danze estatiche delle confraternite sufi.
Negli infiniti richiami ai giorni nostri che s’incontrano nelle vicende del XII secolo, possiamo così anche aggiungere il fatto che Saladino é un curdo oppure che la parola ?assassino’ deriva dal nome di una setta nata e prosperata proprio in quel secolo, quella degli hashishyyin le cui gesta fanno da sfondo alle vicende crociate e a molti avvenienti degli anni centrali del secolo.
Alcuni fanno derivare l’etimologia del termine dalla stessa radice di hashish, che nel significato originale si riferiva al foraggio o all’erba fatta essiccare e che, in seguito, venne utilizzato per indicare la canapa indiana i cui effetti narcotici erano noti ai musulmani già nel Medioevo.
Si narrava, infatti, che gli Assassini, veri e propri killer dell’epoca, agissero sotto l’influsso di sostanze stupefacenti, ma, naturalmente questo non fu mai provato.
Una delle prime descrizioni di questa setta si trova nel racconto di un inviato di Barbarossa, mandato in Egitto e in Siria nel 1175.
?Sappiate che sulle montagne ai confini di Damasco, Antiochia ed Aleppo,? egli scrive nel suo rapporto ?c’é una razza di saraceni che nel loro idioma sono chiamati Heyssessini, e in provenzale segnors de montana. Questa stirpe di uomini vive senza legge: in contrasto con la legge dei saraceni si cibano della carne dei maiali ed inoltre si uniscono senza alcuna distinzione con tutte le donne, comprese le proprie madri e le sorelle. Vivono sulle montagne e sono pressoché invincibili perché possono rifugiarsi in castelli ben fortificati...Tra loro vi é un Signore che desta il più grande timore sia in tutti i principi saraceni che nei principi cristiani dei paesi confinanti. E ciò perché li fa uccidere in una maniera straordinaria che é la seguente sulle montagne possiede molti splendidi palazzi... in cui vi sono molti figli dei suoi contadini che vi vengono allevati sin dalla più tenera età. Qua apprendono molte lingue come il latino, il greco, il provenzale, il saraceno... A questi giovani, dalla prima infanzia fino alla maturità, i maestri insegnano che devono obbedire a tutti i desideri del signore per ottenere le gioie del paradiso. .. e dal momento in cui sono portati all’interno dei palazzi non vedono più nessuno all’infuori dei loro maestri e non ricevono nessun ordine fino a quando non sono convocati alla presenza del loro Principe...Quindi il signore dà ad ognuno di loro un pugnale dorato e li manda ad uccidere quel principe che egli ha indicato?.
Di loro si parlerà e si scriverà moltissimo, con molte leggende miste a verità, e se ne occuperanno personaggi molto noti, come Marco Polo o Guglielmo di Tiro, e meno conosciuti come il grande islamista francese del XIX secolo, Silvestre de Sacy, che il 19 maggio 1809, lesse una memoria all’Institut de France sulla dinastia degli Assassini e sull’etimologia del loro nome.
Le moderne missioni suicide dei Feddayn palestinesi e parte del terrorismo islamico ricordano molto da vicino le gesta di questa setta che colpiva allora i centri del potere islamico e crociato in modo indistinto ed in virtù della sua connotazione sciita.

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