lunedì 23 luglio 2007

Parte dodicesima

Federico Barbarossa sigla la pace di Venezia il 24 luglio 1177.
Alla fine di quello stesso anno, é ad Assisi, dove quattro diplomi da lui emanati, attestano il suo soggiorno, dal 19 dicembre al 3 gennaio 1178.
Da lì, riparte per Genova, poi per la Borgogna e infine rientra in Germania.
Nel 1180 é a Wurzburg, dove priva il ribelle cugino, Enrico il Leone, di tutti i suoi feudi e beni personali: Sassonia e Baviera vengono divise e passano nelle mani dei fedeli dell’imperatore.
Enrico viene poi esiliato in Inghilterra, dove soggiornerà presso il re Enrico II Plantageneto di cui é cognato.
Rafforzato così il suo potere in patria, Federico può ripensare all’Italia, forse, o soprattutto, per il prestigio che le deriva dall’essere, al tempo stesso, culla del grande e sacro Romano Impero e sede della cristianità.
Osservata con occhi moderni, la testardaggine di Federico appare quasi senza senso.
Egli dedica alla questione ?italiana? le maggiori risorse della sua esistenza.
Forse perché solo questo prestigio può consentirgli di governare nella sua terra, ribelle e difficile, dove la pacificazione é avvenuta a prezzo di dure lotte e di ampie concessioni ai maggiori principi tedeschi.
Però c’é comunque qualcosa di ostinato nel suo bisogno d’Italia, un’ossessione che lo seguirà fino alla morte, che appare inspiegabile.
Non vi é praticamente decennio, dal suo insediamento alla guida dell’impero avvenuto il 18 giugno 1155, senza che egli non scenda militarmente in Italia.
E, sebbene non riesca mai a domarla e dominarla pienamente, ne influenzerà profondamente le sorti, nel bene e nel male.
Non é certo mia intenzione giudicare l’operato di un personaggio complesso come Federico Barbarossa, ma, piuttosto, cercare di comprendere le ragioni che lo portarono a Monte Siepi nel 1185, per tentare di rimuovere almeno alcuni dubbi sull’intera vicenda di Galgano.
Nel corso della sua sesta ed ultima discesa in Italia, sempre nel 1185, Federico toglie, all’improvviso, a Firenze tutte le conquiste consolari sui nobili della campagna, mentre Siena gli rifiuta l’ingresso in città.
Ecco che la predizione di Galgano si avvera; forse Federico é ospite del castello di Chiusdino e scopre l’esistenza di Monte Siepi.
Colui che viene salutato come ?Imperatore dei Romani?, ?Cesare Augusto?, ?invittissimo?, ?gloriosissimo?, é dinanzi alla spada.
L’uomo ama i cerimoniali, lo ha già ampiamente dimostrato, ma pare sia, anche, molto superstizioso.
Ha chiesto di entrare, egli solo, nella Rotonda, da poco ultimata.
La luce del sole illumina la spada, l’acciaio risplende.
Pensa che se riuscisse a svellerla, potrebbe risolvere tutti i suoi problemi. Sarebbe l’eletto!
Chissà, forse é proprio lui a spezzarla nei ripetuti tentativi di estrarla dalla roccia; poi si dirà che sono stati tre malandrini, tre invidiosi, e così nascerà la leggenda.
Tra storia e invenzioni della fantasia, intorno a Galgano si raduna un intero universo.
Alcune fonti raccontano che, al trapasso di Galgano, erano presenti i vescovi di Massa e Volterra e alcuni monaci cistercensi, tra i quali due abati di ritorno dalla Francia, dopo aver partecipato al Capitolo Generale dell’Ordine.
Il santo venne sepolto alla loro presenza. Tutto accade tra il 1180 e il 1185.
Nello steso lasso di tempo, Lucio III, il lucchese Ubaldo Allucingoli, eletto papa a Velletri il 1 settembre 1181, deve vedersela con il Comune della città eterna, riuscendo a risiedere a Roma solo nell’inverno 1181/1182.
I nodi della controversia in atto tra il papa e i governanti dell’Urbe risiedono, innanzitutto, nella richiesta di riconoscimento papale del nuovo assetto istituzionale della città e nella antica disputa per Tuscolo, che i Romani vogliono assoggettare.
Lucio III chiede, per questo, l’aiuto di Cristiano di Magonza e delle sue truppe, in quel momento dislocate in Toscana, ed il loro arrivo riesce a disperdere i Romani e garantire al papa una certa tranquillità, fino all’improvvisa morte dello stesso Cristiano, deceduto per febbre maligna, proprio a Tuscolo, il 25 agosto 1183.
A Lucio III non rimane che la fuga da Roma, ormai in preda alla furia anticlericale, ed il successivo arrivo a Verona, dove incontra Barbarossa, reduce dalla pace di Costanza.
E’ esattamente l’anno che precede il processo di beatificazione di Galgano.
Lucio III non si sarebbe più allontanato da Verona, dove la morte lo sorprende il 25 novembre 1185.
Non passano neppure due anni, quando giunge in Europa, imprevista e inattesa, la notizia della caduta di Gerusalemme in mano al Saladino, dopo la sconfitta dell’esercito crociato ad Hattin.
Con essa, rientra in patria anche Guglielmo di Tiro, attento cronista e protagonista di spicco nella storia della crociate da quando, nel 1174, é stato nominato arcivescovo di Tiro.
Egli torna a predicare la III crociata per la riconquista della Città Santa, proprio in virtù dell’autorevolezza della sua figura.
Come novant’anni prima, dopo un regno dalle alterne fortune, segnato spesso da vicende drammatiche, si ritorna a mobilitarsi per la liberazione del Santo Sepolcro.
L’Europa cristiana, però, non é più quella della fine dell’XI secolo, molte cose sono cambiate e lo spirito della crociata non é, e non può essere, più lo stesso.
Anche l’esito di questa nuova spedizione, a cui peraltro hanno aderito i più potenti sovrani europei, Federico Barbarossa, Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, non consente la riconquista di Gerusalemme e la crociata si conclude con esiti ai limiti dell’insuccesso totale e con strascichi davvero imprevedibili in partenza.
Oltre all’improvvisa scomparsa di Barbarossa, Riccardo viene catturato, al suo ritorno in patria nel 1193, dal duca d’Austria, che lo terrà prigioniero per oltre un anno e mezzo, rilasciandolo solo dopo che sua madre in persona, Eleonora d’Aquitania, gli avrà consegnato il considerevole riscatto richiesto.
Filippo Augusto, invece, rientra in Francia subito dopo la presa di Acri, nel luglio del 1191, rientro che, dagli inglesi di Riccardo, viene considerato una vile diserzione ed un tradimento di fatto.
La crociata ottiene soltanto un accordo sulla libera circolazione dei pellegrini a Gerusalemme, stipulato nel 1192 tra Riccardo e Saladino, e la conquista di S.Giovanni d’Acri, un ben magro bottino per le ambizioni con cui era partita e per il prestigio dei suoi protagonisti.
E’ l’ultimo decennio del secolo; dal 14 aprile 1191 é papa Celestino III, Giacinto Borbone, 85enne romano della famiglia degli Orsini.
E’ lui che, il 25 aprile dello stesso anno, incorona imperatore Enrico VI insieme alla moglie Costanza.
Il groviglio di interessi che occupa, distraendoli, i protagonisti delle vicende legate a Monte Siepi é tale che, per qualche anno, tutti sembrano dimenticarsi dei luoghi del santo.
Non se ne può occupare neppure il successore di Barbarossa, troppo preso dal tentativo di entrare in possesso del regno normanno, eredità della moglie Costanza, obiettivo che Enrico VI riuscirà a raggiungere solo nel 1194, con la morte di Tancredi, che nobili locali, spalleggiati dal papato, avevano eletto re alla morte di Guglielmo II, nel 1189.
Per un profano é davvero difficile orientarsi negli intrecci, che in vario modo, legano le corti europee.
Spesso, i matrimoni sono l’alternativa alla guerra e le parentele incrociate nelle case regnanti sono all’ordine del giorno.
Il ruolo politico di questi matrimoni dei piani alti é palese anche allora e quello tra Enrico e Costanza non é che uno tra i molti, ma quando viene celebrato, il 26 gennaio 1186, appare come il coronamento del sogno imperiale di Federico.
Con l’impero formalmente domato e il regno normanno in eredità, la sua stirpe allunga finalmente le mani anche sull’Italia del sud e stringe in una morsa letale il nemico di sempre, il papato.
Gli avvenimenti successivi smentiranno tutte le premesse, ricordandoci che anche i grandi progetti possono essere toccati dall’imponderabile.
Il regno normanno sembra comunque distogliere Enrico da altre questioni sempre aperte.
Nel Natale del 1194 é a Palermo, dove viene incoronato re di Sicilia; nel 1196 é nuovamente in Italia; nel 1197 muore improvvisamente, scatenando una lotta per la successione che vedrà, schierati e contrapposti, da un lato Ottone IV con i ?guelfi? e dall’altro Filippo di Svevia con i ?ghibellini?.
Termini che mi riportano alla mente i banchi di scuola, Dante, come mi annoiava allora, così lontano dalla realtà che vivevo, pesante da digerire, difficile da comprendere.
Non riuscivo ad entusiasmarmi per quelle vicende, ad appassionarmi per quei personaggi, e mai avrei immaginato di ritrovarmi in una tale ansia di conoscenza da dover fare i conti anche con il Sommo Poeta, il padre della lingua italiana.
Pur essendo nato nel secolo successivo a quello che tanto mi interessa, gran parte della sua opera, com’è ovvio, subisce gli influssi più profondi di tutto ciò che era maturato fino ad allora, e gli echi delle imprese e dei mutamenti dei cento anni che lo precedono si avvertono e si ritrovano anche in molti dei suoi lavori.
Ottone IV alla fine avrà il sopravvento e, nel 1200, sarà nominato imperatore al posto di Filippo di Svevia, assassinato.
In seguito, in opposizione ad Ottone IV, verrà eletto re di Germania, nel 1211, Federico II di Svevia, che altri non é che il figlio di Enrico VI e Costanza d’Altavilla, nato nel 1194, a Jesi, durante la discesa del padre verso il regno di Sicilia.
Sarà, quella di Federico, una delle figure di maggior rilievo del XIII secolo, personalità di grande interesse, fortemente legato al sud del nostro paese, che ha arricchito con innumerevoli opere di cui possediamo ancora grandi e numerose testimonianze.
Anch’egli erede, in qualche misura, del XII secolo e di molte atmosfere nate proprio nel suo scorcio finale quale sintesi di un processo tortuoso e difficile, fonderà nuovo e antico, contribuendo a trasmetterci moltissimo di quel mondo
Anche innumerevoli altri personaggi del XIII secolo, la cui fama é giunta sino a noi, affondano ancora le loro radici in quegli irripetibili cento anni.
San Francesco e San Domenico per esempio, ma anche Federico II e Gengis Khan, Innocenzo III e Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno e Pier delle Vigne, Cielo d’Alcamo e Santa Chiara, Michele Scoto e Guido da Siena, tutti nati proprio negli ultimi anni del XII secolo.
Sono passati undici anni dalla consacrazione della Rotonda, é il 1196, una gran carestia interessa tutta l’Europa.
Enrico VI scende nuovamente in Italia, forse transita da Monte Siepi, emette un nuovo privilegio, dopo quello del 1191, ma la sua mente é sempre rivolta al sud.
Il 20 maggio del 1195, ha nominato suo fratello Filippo margravio della Tuscia, ma Filippo, dopo un anno, rientra in Germania dimettendosi e la carica si estingue.
Monte Siepi vive un periodo oscuro, nessuna testimonianza a documentare quanto accade in quegli anni.
Molti autori ipotizzano che, proprio a cavallo tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, avvenga la definitiva rottura e scissione tra i primi seguaci di Galgano e quelli che, in un certo senso, possono essere definiti gli usurpatori di Monte Siepi.
Dovrebbero coincidere con questo periodo anche la dispersione delle reliquie di Galgano e la nascita di nuovi eremi galganiani, come quelli di Vallebuona e di Catasta, nei pressi di Chiusi.
Sono passati ormai vent’anni dalla morte del santo, quando l’8 ottobre 1201, il vescovo di Volterra, Ildebrando Pannocchieschi, concede in perpetuo alla ?Chiesa del beato Galgano confessore? terreni a nord di Monte Siepi e buona parte di quelli compresi tra Chiusdino e l’eremo, oltre a terre tra i fiumi Cecina e Sellate.
Ci si deve muovere tra donazioni e atti, in modo assolutamente ipotetico, poiché l’intreccio di interessi e vicende rende il percorso tortuoso, mentre i principali protagonisti dell’enigma vivono nel continuo alternarsi dei rapporti di forza.
Sono gli anni che precedono l’avvio dei lavori di costruzione della grande abbazia, ma ecco che già, su questo periodo, si solleva la cortina di nebbia e mistero che ha avvolto Galgano ed il suo culto fino a quel momento ed iniziano ad intravedersi sprazzi di luce e certezza.
Ormai siamo di fronte al fatto compiuto, Monte Siepi é, a tutti gli effetti, un insediamento cistercense e tale rimarrà, fino all’istituzione della Commenda nel 1503, di cui si ha notizia nel Caleffo detto ?Lupa?, conservato nell’Archivio di Stato di Siena.
Galgano é ormai, ufficialmente, un santo e la sua immagine si definisce e si perfeziona.
Innanzitutto é un cavaliere e così appare nell’iconografia che lo riguarda.
E’ proprio il cavallo che, rifiutandosi di proseguire oltre, gli indica e lo conduce a Monte Siepi.
Essere cavalieri alla fine del XII secolo comporta diverse conseguenze.
Occorre essere facoltosi, poiché possedere un cavallo rappresenta un costo molto elevato, tanto per fare un paragone poco ortodosso, come avere una Ferrari oggi.
Costa l’animale e costa il suo mantenimento, sono pochi coloro che possono permetterselo.
Inoltre, proprio in quegli anni, si vanno definendo criteri di selezione e trasmissione che limitano e riducono le possibilità di divenire cavaliere, non essendolo di nascita.
Anche l’armamento richiede notevoli risorse e diviene sempre più costoso e complesso.
Come afferma Cardini nel suo interessante lavoro sulla guerra ?Quella antica festa crudele? edito da Mondadori: ?nel periodo che può essere considerato l’età aurea della cavalleria medievale, cioè grosso modo tra la metà dell’XI e i primi del XIII secolo, la carriera cavalleresca cominciava dall’infanzia e si protraeva attraverso le esperienze giovanili presso un senior, il tirocinio che culminava nell’addobbamento e infine l’aventure?.
Galgano compie questo percorso? Chi era il suo senior? Viene addestrato alla cavalleria?
Tutte domande senza risposta, come da copione.
Eppure si insiste sulla sua appartenenza alla cavalleria, proprio perché il rifiuto delle armi possa acquisire un ulteriore e nuovo significato simbolico.

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