sabato 14 luglio 2007

Parte prima

Ho iniziato questo libro non una, ma dieci, trenta, cento volte e sempre, puntualmente, dopo una, dieci, cento righe, ho smesso per pigrizia.
Tanto vale dirlo subito, sono un inguaribile pigro e sono anche volubile, incostante.
Non sono uno scrittore, non amo rileggermi, raramente riesco ad esprimere per iscritto ciò che penso ed ogni volta che ci ho provato ho rinunciato per i risultati poco incoraggianti.
Eppure qualcosa mi diceva che stavolta sarebbe stato diverso.
Niente era più come prima da quando un giorno, per caso, ero capitato all’eremo di san Galgano.
Fino a quel momento non ne conoscevo neppure l’esistenza, non ne avevo mai sentito parlare.
Era una giornata d’autunno del 1994.
Il tempo era incerto: grossi nuvoloni oscuravano l’orizzonte e una luce irreale illuminava le colline della val di Merse.
A prezzo di lunghe ricerche ero riuscito a sapere che il Mulino Bianco, proprio quello utilizzato come set per i famosi spot pubblicitari dei prodotti per la buona famiglia italiana, era situato nel territorio del comune di Chiusdino in provincia di Siena.
Dovevo fotografarlo e redigere una relazione per un nuovo progetto pubblicitario di un’azienda alimentare concorrente, poiché questo era il mio lavoro.
Non era stato facile individuare l’esatta ubicazione del Mulino, nemmeno seguendo le indicazioni che mi avevano fornito alcuni gentili e disponibili abitanti di Chiusdino.
Qui, nel borgo che aveva mantenuta intatta la sua struttura medievale, avevo subito riconosciuto i luoghi del primo e ormai storico spot, quello della corsa podistica nella quale il protagonista arriva secondo davanti agli occhi della moglie e del figlio, tagliando lo striscione del traguardo posto proprio nel centro del paese.
Arroccato su un costone roccioso da cui si domina la valle sottostante, Chiusdino era stato, con il suo castello, un importante bastione ai confini del territorio un tempo appartenuto ai vescovi di Volterra, ma io, allora, non mi interessavo ancora di questi argomenti e quasi non avevo notato la sua tipica struttura di borgo incastellato.
Cercavo il Mulino Bianco, ero stanco e avevo voglia di tornare a casa, a Milano.
Finalmente un indizio, una piccola informazione in più: quello che mi interessava era giù, nella vallata, in località Luriano; dovevo tornare sulla statale Massetana e proseguire per qualche centinaio di metri in direzione Follonica.
Qui, sul lato sinistro della carreggiata, un piccolo spiazzo sterrato celava un sentiero che costeggia dapprima un capannone abbandonato, poi un deposito di rifiuti e, infine, si inoltra in una fitta boscaglia.
In tutto sette, ottocento metri di distanza dalla strada, dalla quale, però, il mulino é invisibile e solo chi lo conosce bene riesce a scorgerne l’apice che fa capolino tra le piante.
Nessuna indicazione, naturalmente, eppure il tamtam della gente di questa strana Italia, aveva funzionato così bene che nel piazzale erano posteggiate numerose auto con targhe di tutte le città, Napoli, Bari, Milano, Roma, e una piccola moltitudine di mamme, nonne, bambini, padri, andava e veniva dal sentiero.
L’immancabile furgoncino, distribuiva porchetta e hot-dog ai più affamati.
Il Mulino era stato una vera delusione.
Sfacciatamente finto vero, era completamente imbiancato di un bianco irreale e stridente e tutto aveva il sapore di un set cinematografico abbandonato.
Il mulino, infatti, viveva solo nei giorni di riprese, peraltro pochissimi durante tutto l’anno.
Per il resto del tempo, le uniche tracce di vissuto erano i trabattelli sparsi tutto intorno, probabilmente utilizzati per le luci di scena e per le telecamere.
La grande ruota, mossa elettricamente durante gli spot, era tristemente immobile.
Alcune catenelle delimitavano una sorta di percorso obbligato che seguiva il perimetro esterno del mulino mentre il solo ambiente visitabile era la famosa cucina che si poteva ammirare negli spot, l’unico ad essere stato restaurato anche internamente.
I visitatori non sembravano particolarmente entusiasti, forse giusto i bambini e, poi, l’immancabile foto ricordo, una sorta di feticismo collettivo per uno dei simboli più noti della civiltà dei consumi, un marchio di prodotti venduti facendo leva sulla riscoperta di antichi valori e sapori.
Per inciso, quegli spot avevano segnato una netta inversione di tendenza nella comunicazione pubblicitaria che registrava, a sua volta, quella in atto nella nostra società, almeno a sentire sociologi, analisti ed esperti di vario genere.
La gente voleva essere rassicurata e illudersi che avrebbe potuto ritrovare la genuinità di un passato che sembrava perduto per sempre.
In tutto, la mia visita era durata mezz’ora, foto e annotazioni comprese.
Altre informazioni le avrei avute tempo dopo, quando sono tornato a Chiusdino, non più per il Mulino Bianco, ma per quello che avevo scoperto quel giorno, proprio lì, a poche centinaia di metri, dopo alcune curve della Massetana, imponente nella vallata e suggestivo in cima ad una collinetta isolata.
Così mi erano apparsi l’eremo e l’abbazia di san Galgano: all’improvviso e inaspettati.
Non ero mai stato, fino a quel giorno, particolarmente attento alle bellezze architettoniche; ne avevo viste molte, praticamente in tutta Italia, ma si trattava di un’osservazione distratta, come se tutto ciò che vedevo fosse assolutamente normale: San Marco, il Duomo, la Torre, l’Arena, il Teatro, il Castello.
L’Italia é piena di meraviglie, talmente piena che chi vi nasce, nemmeno se ne accorge, ci vive in mezzo e basta. Non so neppure io quale incredibile potere di attrazione ha avuto su di me quell’improvvisa visione. Tempo ne avevo, deviare é stato un attimo.
Ho imboccato un viale che, dopo circa duecento metri, prosegue dritto verso l’eremo oppure curva a destra verso l’abbazia.
Da quel punto, la sorpresa si tramuta in sgomento e, per chi non se lo aspetta, l’impatto visivo con l’imponente monumento, fino ad allora seminascosto, é quasi violento.
L’abbazia si erge in tutta la sua maestosità, ferita per sempre nella sua integrità e forse proprio per questo così unica e magica.
Ne restano solo i muri perimetrali, splendidi nel loro slancio gotico, sopravvissuti al crollo del campanile e del tetto, per segnalare, dall’alto delle loro colonne e dai capitelli dalle infinite forme, la presenza di un’opera dell’ingegno umano e salvarla dall’incuria del tempo.
Il 10 agosto 1789, per incarico del Vescovo di Volterra, Mons. Luigi Buonamici, il Proposto di Chiusdino, Tommaso Maria Giudici, esegue la sentenza di ?profanazione? dell’Abbazia di San Galgano, togliendo dalla chiesa le pietre sacre e tutte le reliquie. La campana maggiore, opera del XIV secolo, pesante 6,600 libbre viene rotta e il bronzo fuso é utilizzato per la nuova chiesa di Pomarance.
L’Abbazia é definitivamente abbandonata.
Sono rimasto a lungo ad ammirarla dall’esterno prima di decidermi ad entrare.
Mette vertigini, con le sue ogive, gli archi acuti, i potenti contrafforti.
Il tempo non era eccezionale, ma la luce era forte e l’aria limpida, i contrasti violenti.
L’abbazia si stagliava sul verde intenso, sui colori dell’autunno in arrivo, sui gialli dei campi arati e arsi dal sole, sui marroni intensi delle foglie e dei rami, sugli arancioni e sui rossi vividi, sulle mille sfumature e sulle tonalità più delicate.
Sul lato destro, il complesso abbaziale proseguiva con la sala capitolare, lo ?scriptorium?, il chiostro, ma io, allora, ero del tutto ignorante in materia, mi limitavo ad emozioni poco dotte, fatte solo di suoni, adrenalina, istinto.
Quella visione mi emozionava ed era soltanto l’inizio.
Sono entrato dapprima nella sala capitolare, era ben tenuta, ma era vuota.
Da inesperto, non potevo apprezzarne lo stato di conservazione, le sue caratteristiche di luogo di riunione della comunità monastica, dove un tempo veniva distribuito il lavoro, prese le decisioni più importanti, letti i testi sacri.
Ricordo però che non mi aveva particolarmente colpito. ?La prima, piccola, veniale delusione?, devo aver pensato, mentre stavo per varcare l’ingresso dell’abbazia.
Ne avrei potute perdonare mille altre per lo spettacolo che mi attendeva all’interno.
Il pavimento era un verde prato, interrotto da chiazze di terreno, irregolari come le ombre, sempre in lotta con le geometrie di un’architettura semplice e complessa, elevata e lineare; per soffitto, un cielo intenso, mutevole, imprevedibile.
Sono rimasto a lungo immobile, appena varcato l’ingresso, con gli occhi al cielo, agli archi, ai capitelli, alla facciata, all’abside, al suo grande rosone.
Poi ho iniziato ad esplorarla, riprendendo lentamente conoscenza.
Superato il culmine dell’emozione, non mi sono soffermato troppo su quello che, secondo me, restava da vedere.
Ero così poco appassionato e distratto, da non essermi neppure reso conto che tutti i capitelli, oltre un centinaio, erano assolutamente diversi tra loro per disegni, ornamenti e stili, ed ognuno era unico nel suo genere.
Uno, addirittura, recava scolpito un volto che, poi, avrei saputo essere quello di Ugolino di Maffeo, presunto maestro capo degli intagliatori di pietra che costruirono l’abbazia, e che, com’era usanza allora, aveva così firmato la sua opera.
In quel momento, continuavo a muovermi in cerca di emozioni e dovevo ancora visitare l’eremo in cima alla collina.
Ci si può arrivare in auto, tornando al bivio e svoltando a destra, oppure é possibile salire a piedi lungo un sentiero che inizia proprio dietro l’abbazia.
La salita non é ripidissima e, in meno di dieci minuti, si arriva alla Rotonda sorta sul luogo esatto in cui Galgano si ritirò in eremitaggio.
Se l’imponenza e la grandiosità dei ruderi dell’abbazia mi avevano emozionato, qui la dimensione raccolta e sferica mi ha letteralmente travolto, lasciandomi in estatica contemplazione dell’edificio per non so quanto tempo.
Intorno a me, a perdita d’occhio, colline, prati, boschi; in lontananza, ma perfettamente visibile, il borgo di Chiusdino, paese natale del santo, esattamente lì, proprio dove tramonta il sole.
Osservavo con più attenzione il paesaggio che non le caratteristiche esterne dell’edificio, ma ricordo che notai quasi subito le strane e, per certi versi, buffe decorazioni del cornicione del portale d’accesso alla Rotonda.
Fu solo un attimo, non potevo certo sapere che gli studiosi le considerano sculture di fattura arcaica e campagnola, un tipico esempio di romanico rurale e di sconosciuta attribuzione.
Erano davvero curiose: tre teste umane, una bovina ed una foglia. La terza da sinistra, rappresenta un volto con grandi baffoni, quasi come quelli di Dinamite Bla, mentre la prima da destra, ha una vaga rassomiglianza con E.T.
Perfettamente al centro della facciata, sopra l’ingresso a semicerchio, non poteva sfuggirmi anche uno stemma in netto contrasto di stile, che si rivelò essere uno stemma mediceo di chiara provenienza barocca.
Durante la mia prima visita, feci poco caso al resto della costruzione, al piccolo campanile in cotto, alle sue monofore, alla canonica.
Ero come stregato dalla circolarità del luogo di cui la Rotonda sembra divenire il centro perfetto.
Se avessimo potuto, per un attimo, eliminare tutte le sue appendici non circolari, realizzate in diverse fasi e in varie epoche, sarebbe stata la naturale conclusione della collina, un perfetto apice, l’incontro tra il cielo e la terra.
Il tempo stava peggiorando, qualche goccia d’acqua e un vento tagliente non facevano presagire nulla di buono, ma, nello stesso tempo, infondevano a quei luoghi un’atmosfera irreale, oggi potrei definirla celtica, senza per questo pensare di schierarmi con Bossi e i suoi ridicoli nazionalismi da preistoria.
Anche la luce diminuiva rapidamente ed io dovevo ancora visitare l’interno della Rotonda.
Uno sguardo distratto all’atrio, tanto da non accorgermi neppure di un piccolo emporio sulla destra, e mi ritrovai all’interno di una cupola straordinaria.
Un cilindro e un emisfero sovrapposti in un’idea di perfezione che solo figure geometriche rendono percettibile, come i ventiquattro anelli concentrici bianchi e rossi che, alternati tra loro, conducono lo sguardo in alto, al centro della volta, lungo una spirale che cattura ed eleva, che innalza e protende.
In matematico asse verticale con esso, in tutto il suo mistero ed il suo fascino, una spada infissa nella roccia.
All’improvviso la mia infanzia, i miei miti di bambino, Artù, Merlino, Lancillotto, i Cavalieri della Tavola Rotonda, ?ma com’è possibile?? ho pensato ?avevamo una spada nella roccia in Italia e io non lo sapevo??.
Non lo sapeva quasi nessuno, vista la scarsa presenza di visitatori, perlopiù stranieri.
Come era potuto accadere, quando, chi era stato ?
Non ne ero ancora consapevole, ma stavo per venire risucchiato: dalla cupola, dalla spada, dagli affreschi, dalle reliquie; risucchiato senza pietà dalla voglia di sapere, di conoscere, di scoprire.
Come molti altri ragazzi negli anni ‘60, sono cresciuto con i telefilm di Ivanhoe e di Robin Hood, ho visto e rivisto lo stupendo film a disegni animati della Walt Disney che rendeva il personaggio di re Artù ancora più avvincente, il vero prototipo dell’eroe positivo.
Ero sempre rimasto affascinato dalla vicenda dell’estrazione della spada e mi piaceva che, nel cartone animato, fosse proprio un ragazzino a riuscirci, svergognando e sbugiardando una massa di adulti tronfi e prepotenti.
Nelle lotte tra bande di ragazzini di allora, immaginavo di essere come Artù, buono e giusto; implacabile come Pecos Bill, fedele come Rin Tin Tin, coraggioso come Batman, astuto come Diabolik, invulnerabile come Superman.
Era uno dei miei miti, la Tavola Rotonda, un’idea di uguaglianza, di rifiuto della prevaricazione, uno per tutti e tutti per uno, come i quattro moschettieri, come mai non siamo in otto, perché manca Lancillotto, come gli ammutinati del Bounty, come Ercole, Maciste, Ercolino sempre in piedi. Non mi aveva mai interessato la collocazione storica di Artù.
Che fosse un mito medievale era ininfluente.
Conviveva, senza alcun problema, con l’Invasione degli Ultracorpi o Ventimila leghe sotto i mari, con l’immaginario e con il reale.
Ciò che mi attirava era, invece, una sorta di autoidentificazione nei suoi valori, almeno in quelli dichiarati: la necessità di soprannaturale nello scontro mortale con il male, il piacere della vittoria garantita del bene. Un vortice di pensieri davanti ad un’elsa infissa nella roccia, protetta da una bacheca di plexiglas che ne limita il fascino, ma la preserva da atti ostili; una lama appena visibile, forme note di manifattura incerta, di datazione imprecisa; una spada di fattura molto semplice, con impugnatura cruciforme, battuta in modo che potrebbe sembrare approssimativo; quanti pensieri in pochi attimi.
Una luce violenta, abbagliante li ha interrotti.
Il sole, sul punto di tramontare, si era aperto un varco tra le nuvole, improvviso e imprevisto, e colpiva, con le ultime energie del giorno, l’interno della Rotonda, diffondendo ovunque un nuovo chiarore nel quale tutto si definiva e si rendeva visibile.
Anche l’ingresso alla cappella degli affreschi, fino a poco prima nascosto nella penombra, adesso mi invitava ammiccante.
Sono entrato in un piccolo ambiente quadrato le cui pareti erano interamente ricoperte di dipinti.
Non sapevo ancora che stavo ammirando affreschi trecenteschi del grande Ambrogio Lorenzetti, osservavo immagini di santi, angeli, vescovi, profeti, completamente ignaro del loro significato, ammirato dai colori, dal movimento, dall’insieme racchiuso in uno spazio ristretto, un’aula quadrata con volte a crociera gotica quadripartita, addossata al lato nord della Rotonda.
Dentro una bacheca di vetro, seminascosta da un panno verde e appesa alla parete sulla sinistra dell’entrata, la reliquia, un po’ macabra, di una mano ischeletrita rammentava che, qui, tutto rimanda alle vicende del santo eremita di Chiusdino.
Luce artificiale a pagamento, duecento lire per qualche minuto di illuminazione degli affreschi, magnetici anche per un profano, un ultimo sguardo alla spada, al tramonto visto dall’interno della Rotonda, ed ero nuovamente nel piccolo androne adibito ad atrio.
Uscendo, mi sono accorto dell’emporio e ci sono entrato deciso.
Un piccolo ambiente, con molte offerte ben esposte e ordinate, dai souvenir della spada nella roccia alle più diverse riproduzioni della spada stessa, da cartoline ricordo a veri e propri album fotografici, da tisane ed erbe miracolose a libri di cucina, di storia, di folklore; dalla liquirizia al liquore dei monaci.
Un’anziana signora, un po’ scorbutica, ma dipende dalle giornate, con un forte accento toscano, era alle prese con una coppia di olandesi a cui cercava di rifilare, in un’improbabile lingua, qualsiasi cosa pur di vendere.
L’avrei rivista spesso, estate e inverno, sempre indaffarata, meno burbera della prima volta, perdutamente innamorata del suo eremo, della Rotonda, del suo parroco.
Era quasi buio e l’emporio stava per chiudere.
Ho arraffato due volumetti che, per le dimensioni, sembravano poco impegnativi e che, per una modica spesa, avrebbero potuto svelarmi le vicende della spada e dei luoghi che avevo appena visitato.
Non li ho letti subito.
Ormai era notte e Milano lontana più di quattrocento chilometri.
Nei giorni successivi mi ero quasi scordato di quella incredibile esperienza, travolto da impegni inderogabili e dalla mia solita pigrizia nei rari momenti di tempo libero.
Le vacanze di Natale irruppero, come sempre, con il loro carico di regali da fare, da scegliere, da trovare, e, mentre rovistavo sulle mensole di casa in cerca di qualcosa di riciclabile, riapparvero dall’oblio i due libretti acquistati all’emporio dell’eremo.
Cominciai a leggere il primo proprio la mattina di Natale.
Era di Franco Cardini, ordinario di Storia Medievale all’Università di Firenze, dall’invitante titolo ?San Galgano e la spada nella Roccia? ed era edito da Cantagalli di Siena.
Lo lessi voracemente, con avidità e lo terminai in poche ore.
Confesso, però, che invece di rispondere a tutte le mie ingenue domande, la lettura mi lasciò confuso e anche un po’ indispettito.
Quante cose non conoscevo: citazioni, scenari, vicende storiche di un’epoca che, per me, era, fino ad allora, ancora associata all’idea di barbarie, di secoli bui di orrori e distruzioni, di torture e roghi, interrotti solo qua e là dall’apparizione di un cavaliere senza macchia e senza paura, troppo poco per poterne emettere un giudizio di civiltà.?
??Luoghi comuni, menzogne ignoranti, pregiudizi superati, retaggio di una storiografia ormai abbondantemente sconfessata; il libro di Cardini cominciava a svelarmi una realtà molto diversa, anche se io ancora non possedevo gli strumenti per comprendere, per orientarmi, per immaginare quale fosse realmente il mondo di novecento anni fa.
Fino ad allora, solo la storia contemporanea era riuscita ad appassionarmi, il presente, tangibile e reale, la cronaca, l’attualità.
Da ragazzo odiavo le date; la mia generazione lo definiva nozionismo, acquisizione acritica di dati indiscutibili senza alcuna comprensione di cause ed effetti.
Preso da questi pensieri ho subito iniziato a leggere anche il secondo volume.
Se quello di Cardini mi aveva scosso, ?La spada nella Roccia ed i luoghi della Beatitudine (Il ?caso? di S. Galgano da Montesiepi)? di Nicola Coco, edito da Atanor, mi ha letteralmente travolto.
Domande ad ogni riga, quesiti senza risposte, con il testo di Coco ero definitivamente precipitato nell’enigma Galgano.
Sono un pigro curioso; la curiosità é l’unico difetto che riesce a vincere la mia pigrizia.
Già questa curiosità era, di per sé, un enigma.
Perché non ero rimasto indifferente come in tante altre occasioni ?
Quale era il potere di attrazione, che magnetismo emanavano quei luoghi, perché adesso mi interessava tanto un santo, un eremita medievale ?
Non mi sono accorto subito di quello che mi stava accadendo, sentivo solo l’improvviso desiderio di tornare a Monte Siepi, di trovare altri libri, notizie, risposte, informazioni.
Non credo nei miracoli, non ho mai pensato che la spada potesse davvero essere stata conficcata nella roccia; mi chiedevo quale fosse l’origine di tutto, come scoprire a chi appartiene il sangue nell’ampolla di san Gennaro o avere la certezza che quello impresso sulla Sindone é veramente il volto di Gesù, come conoscere il terzo mistero di Fatima o vedere di persona la Madonnina di Civitavecchia che piange.
Eppure, nessun ipotetico miracolo aveva mai attirato così la mia attenzione, nessuno aveva un significato simbolico così marcato, nessuno evocava maghi, incantesimi, ideali epici in maniera tanto evidente.
Dovevo tornare alla Rotonda, rivederla con altri occhi, più attenti ai dettagli, indagatori, a caccia di particolari, di indizi, di risposte.

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