mercoledì 18 luglio 2007

Parte quarta

Tutto quello che so oggi, ed é ancora così poco, non lo sapevo cinque anni fa.
Ho imparato a gioire della bellezza di un capitello, di un’icona, di un arco, di un mosaico, del piacere di cercare di datarlo e qualche volta riuscirci pure, della felicità di tornare ad amare il mio paese, malgrado tutto.
Girandolo in lungo e in largo, non perdendo alcuna occasione utile, sfruttando al massimo anche le opportunità che il mio lavoro mi concede, ho visto piazze, monumenti, ruderi, fortezze; ho abbandonato percorsi noti per raggiungere luoghi impervi, ho vagato alla ricerca di testimonianze, ho seguito, con maniacale determinazione, ogni cartello, segnale, indizio che potesse condurmi sulle tracce di un secolo di cui rimane ancora moltissimo da scoprire e ancora di più da salvare e salvaguardare.
Sebbene sia ormai considerato da molti studiosi come decisivo per la storia dello sviluppo occidentale, il XII secolo mostra ancora grandi aree buie, certamente per la mancanza di documenti scritti, ma, anche, per la mancanza di un progetto d’indagine articolato e per un’abitudine, troppo diffusa nel mondo accademico, a suddividere studi e ricerche in modo eccessivamente schematico.
Le moderne tecnologie di datazione aprono nuovi confini e obbligano ad una rilettura del passato che sappia tenere conto della fonte documentale come di quella archeologica, che inserisca gli elementi finora conosciuti nell’esatto paesaggio che li ha espressi, che unisca rigore e capacità di simulazione, che confronti, senza timori e preconcetti, i risultati di tutti i settori della ricerca anche per riscrivere, se necessario, una pagina di storia indiscutibilmente decisiva per i nostri destini.
In questa luce, Galgano diviene tappa obbligata di comprensione dello sviluppo, non solo religioso e ?letterario?, ma, anche e soprattutto, culturale nel senso più ampio del termine, di un’area particolarmente significativa ed emblematica per le sue peculiari vicende ed il loro intrecciarsi con quelle del resto d’Europa.
In questi luoghi, quello che é stato da più parti definito il Rinascimento del XII secolo, si può toccare con mano: nascono chiese, crescono i borghi, si moltiplicano gli insediamenti, si sviluppa il commercio lungo un asse viario che diviene simbolo di rinascita.
In questi luoghi, termini come feudalesimo, incastellamento, economia curtense, fodro, regalia, divengono tangibili e visibili, mostrando questioni e conflitti non ancora risolti come altrove, dove forme, più o meno effettive, di potere centrale hanno già preso il sopravvento.
In questi luoghi, nei territori che furono patrimonio della ?famosissima? Matilde di Canossa, che conobbero Etruschi, Romani, Longobardi, Franchi, Tedeschi, la disputa tra papato e impero sull’eredità canossiana si somma alla trasformazione in atto, all’espansione della città verso il contado, ai conflitti tra diocesi e monasteri, al lento e inesorabile declino feudale.
Non possiedo ancora la necessaria preparazione per lanciarmi in affermazioni pretenziose, ma la sensazione che queste vicende possano e debbano essere lette anche in questa direzione é davvero forte, quasi quanto la convinzione che Galgano sia il punto di arrivo e di partenza di un mondo che cambia, proprio a partire dall’ultraterreno.
Galgano, inconsapevole artefice di una nuova rotta, precorre, anticipa, e, nello stesso tempo, sigilla per sempre nell’imperitura roccia un passato che si vorrebbe cancellare.
E’, anche, per usare termini dei giorni nostri, un messaggio di stabilità riconquistata, testimoniato dalla solidità del simbolo.
Ed é nella molteplicità delle possibili letture che Galgano acquista tutta la sua importanza, un ruolo che va ben oltre il presunto mistero che diviene, invece, magnifica coreografia di una rappresentazione alquanto più complessa.
Paradossalmente, ma non poteva che essere così, di Galgano sappiamo quasi tutto dopo la morte, mentre ignoriamo ogni cosa della sua vita, al punto di poter dubitare persino della sua reale esistenza.
Uno, nessuno e centomila, un santo, un mistificatore, un manipolato, un prodotto della fantasia, uno qualsiasi, un cavaliere, uno scapestrato, un convertito, un miracolato, un sognatore, un ribelle, un orfano, uno scapolo, un eremita, un asociale, tutti e nessuno, un viandante, un affabulatore, un mago, un indovino, un arcangelo, un taumaturgo, uno psicopompo, un nobile, un decaduto, un asceta, nessuno e tutti.
Solo quattro anni dopo la sua morte, un lasso di tempo assai breve e inconsueto, la chiesa cattolica sente il bisogno di santificarlo, riconoscendone in qualche modo il valore e l’importanza, al punto da istituire una commissione di indagine, composta da tre prelati e presieduta da Corrado di Wittelsbach, arcivescovo di Magonza e cardinale della Sabina, con l’incarico di riferire i risultati direttamente a papa Lucio III.
I Cistercensi, attenti osservatori della cristianità, accorrono quasi subito, nel 1185, quando la Rotonda, che racchiude le spoglie del santo accanto alla roccia che serra la spada, é già ultimata e consacrata.
Dopo un periodo stentato e conflittuale, si insediano definitivamente nel primo decennio del XIII secolo, erigendo la grande abbazia di cui possiamo ancora ammirare le vestigia.
E’ innegabile che, senza i Cistercensi, il mito di Galgano avrebbe preso altre strade, forse anche quella dell’oblio totale.
Pur con tutti i dubbi, anche sulla leicità dell’appropriazione e della trasformazione del mito, pur con tutte le domande ancora senza risposta, buona parte del merito della sopravvivenza di Galgano é da attribuire ai monaci bianchi che, erigendo nel suo nome un capolavoro di architettura medievale, hanno obbligato l’uomo moderno, dapprima a salvare, poi a studiare e, infine, a promuovere, anche se ancora troppo poco, la conoscenza della loro opera insieme a quella della figura che, a modo loro, onoravano ed anche, perché no, amavano e usavano.
La Massetana non ha più conosciuto fortune e splendori come in quell’epoca e neppure ha più visto conflitti epocali e locali dopo che forze egemoni hanno preso il sopravvento nella regione, ma ha mantenuto intatta la sua peculiarità in un’area che, nei secoli più recenti, ha conosciuto un lento e inesorabile degrado che prosegue inarrestabile ancora ai giorni nostri.
A riprova di ciò, é sufficiente osservare la costante perdita del patrimonio artistico che, per cronica mancanza di risorse e anche per scarsa conoscenza del suo valore, svanisce lentamente, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile.
Forse anche per questo Galgano é lì, per segnalare e indicarci uno scempio che può non apparire grave come le emergenze a cui siamo ormai giornalmente abituati, ma che conduce anch’esso, inevitabilmente, all’impoverimento di ognuno di noi.
Poco importa conoscere la verità se non serve ad invertire la rotta, se non contribuisce a ridare slancio e vigore, se non stimola nuovi studi, se non riqualifica un territorio.
La verità, ammesso che ne esista una dimostrabile, rischia di essere solo terreno per dotti accademici, palestra di eruditismo fine a sé stesso mentre, nel frattempo, si corre il rischio opposto: non importa come, purché se ne parli, tipico atteggiamento di politicanti antichi e moderni, banalità senza senso di un’epoca che si crede superiore anche nella superficialità, con la sola possibile conseguenza di trasformare Galgano in un fenomeno da cartolina illustrata, un baraccone consumistico per turisti frettolosi.
L’eremita di Monte Siepi non ne ha alcun bisogno.
Fino ad oggi, é stata sufficiente la sola forza del suo gesto per attraversare l’incuria del tempo, l’ingratitudine degli uomini, il disinteresse diffuso, per conservarne e trasmettercene la memoria.
Ora, però, é necessario rilanciare, é indispensabile che studiosi ben più preparati e autorevoli di me si riapproprino delle vicende galganiane e infondano nuova linfa nell’indagine.
Ricercare, rovistare, scandagliare, estendere alle aree inesplorate l’attenzione e lo studio, ipotizzare nuovi scenari e dimostrarne l’effettiva realtà, premere perché nuove risorse siano destinate a tutto ciò, é l’arduo compito che Galgano ci affida.
Per aiutarci in qualche misura a traghettare nel terzo millennio più completi e civili, per accompagnarci in questo viaggio attraverso l’uomo dal XII al XXI secolo prossimo venturo.
Perché se la storia non può sempre dare risposte esaurienti, può, almeno, insegnarci ad apprezzare ed amare quello che ci viene da essa consegnato.
Quando si passeggia tra le possenti arcate dell’abbazia, persi nei giochi di luce che ferite e mutilazioni rendono imprevedibili, quando si calpesta il terreno che ne esalta lo slancio, quando si viene rapiti dalle forme e dalle geometrie, quando si respira un’armonia rara, si mescolano sentimenti, emozioni, pensieri di gratitudine, orgoglio, ammirazione.
Non ho mai pensato che Galgano potesse aver realmente conficcato la spada nella roccia. Oggi ne sono quasi certo.
Con buona probabilità, l’eremita toscano deve aver semplicemente inserito la spada in una fessura preesistente da cui doveva essere possibile sfilarla facilmente.
In un periodo in cui santi e reliquie venivano disputati anche a suon di furti, conflitti, invenzioni e falsi, esisterebbe di certo una documentazione, magari incompleta, frammentaria, ridotta, di un evento miracoloso di tale portata, mentre, invece, si accenna alla spada per la prima volta solo nei verbali del processo di canonizzazione, dove si afferma soltanto che una moltitudine di fedeli veniva già da tempo ad ammirare la spada nella roccia e la tomba del santo.
L’infissione non sembra figurare tra i miracoli attribuiti a Galgano, che ne avrebbe compiuti alcuni in vita, pochissimi peraltro, e la maggior parte dopo la morte; casomai potrebbe essere l’impossibilità si svellere l’arma a rappresentare il sovrannaturale, come del resto affermano anche le fonti agiografiche.
In realtà la spada potrebbe essere stata fissata alla roccia in epoche successive, magari per sottrarla alle voglie di possibili malintenzionati e definitivamente cementata in essa per timore dei tedeschi in ritirata dall’Italia durante l’ultima guerra mondiale, come si sente raccontare da queste parti.
Ho provato ad immaginare quale sconquasso avrebbe generato il miracolo di una spada conficcata nella roccia, proprio nello stesso momento in cui Chrétien de Troyes compone il Parsifal, solo pochi anni prima del ?falso? rinvenimento dei corpi di Artù e Ginevra, avvenuto nel 1191, con la loro definitiva consacrazione e la consegna a mito eterno, tutto proprio quando ogni forma di potere afferma di fondarsi sulla volontà divina.
Per inciso, proprio nel 1191 ed in seguito a questo ritrovamento, Riccardo Cuor di Leone, che si trova in Sicilia in attesa di partire per la terza crociata, dona a Tancredi una spada che si diceva fosse la famosa Exalibur di re Artù.
Singolare avvenimento che potrebbe permettere speculazioni di ogni genere sulla natura dell’arma, rendendo persino possibile e plausibile l’ipotesi che si tratti della spada del nostro eremita di cui potrebbe essersi appropriato il sovrano inglese durante la sua discesa verso il sud.
Se davvero fosse stato da subito impossibile svellere la spada dalla roccia, sono certo che ne avremmo avuto notizia.
Informazione troppo ghiotta, anche per la lacunosa, incompleta, diruta cronaca di novecento anni fa; ne sarebbe rimasta almeno qualche traccia e invece niente, tuttalpiù cronache di curiosi, viandanti, pellegrini e fedeli attirati sempre più numerosi solo per la successiva presenza dell’abbazia.
Nessuna coda di novelli re Artù, nessun documento, nessuna testimonianza.
Neppure i Cistercensi misero mai l’accento sull’infissione, pur legando indissolubilmente le gesta di Galgano al ciclo arturiano, riempiendo la sua biografia di continue citazioni, di innumerevoli analogie, di frequenti rimandi ai personaggi e alle vicende dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Gli anni in cui si codifica la definitiva versione dell’epopea arturiana, ormai depurata di tutto il retaggio pagano, celtico e laico dei suoi esordi, sono gli stessi in cui Rolando da Pisa scrive la prima biografia di Galgano che ci é pervenuta.
Tutte quelle successive riprenderanno, più o meno, le medesime vicende, inserendovi tuttalpiù, nuovi inediti particolari.
Ognuno contribuirà, in qualche modo, a fissare per sempre la leggenda del beato Galgano all’interno di uno schema ormai ben definito, capace di contenere modelli di vita a cui uniformarsi, valori e valenze universali o presunti tali.
Forse i Cistercensi, all’apice della loro fortuna, avvertono che la parabola ascendente sta per terminare, che un secolo di crescita vertiginoso rischia di volgere al termine, che il loro ruolo di fedeli alleati del papato sta per essere soppiantato dagli emergenti Ordini mendicanti.
Forse sono consapevoli che l’insegnamento del padre materiale e spirituale del loro ordine, san Bernardo, teorico della Militia Christi, predicatore di crociate, giudice implacabile dell’eresia, ha, ormai, fatto il suo tempo, che sia necessaria una visione pacificatrice della fede, che l’ordine non possa e non debba più riconoscersi in ramificazioni di natura militare che esso stesso ha contribuito a creare, come quella dei cavalieri Templari.
La Terrasanta é persa per sempre.
Dopo la ricaduta di Gerusalemme in mani musulmane, nel 1187, e la lenta e progressiva perdita di tutti i capisaldi che ne costituivano il regno, ai crociati resta solo Acri fino al 1291 a rappresentare una corona ormai senza più alcun valore reale.
L’immagine dell’infedele che si può solo scacciare o uccidere é già superata nell’idea di crociata che san Francesco porta con sé nel 1220.
Terminate le grandi spinte centrifughe che ne hanno determinato l’espansione durante tutto il secolo, l’occidente torna a ripiegarsi su sé stesso, consolida le trasformazioni, avvia un processo di assoluta identificazione con l’idea di cristianità che, pur tra mille strappi e insidie, giungerà sino a noi, sostanzialmente intatta.
Solo in questi ultimi anni é stato possibile porre in discussione istituzioni cardine, come ad esempio quella della famiglia, riuscendo però, solo e soltanto, a discuterne e modificarne in parte regole, non certo i contenuti di fondo.
Chiesa, stato, famiglia: capisaldi della gerarchia, pilastri del potere, un mondo forse più civile, ma anche più imbrigliato, meno libero, meno creativo, infisso anch’esso in una roccia con un gesto che, in fondo, é anche rinuncia, nel significato più completo e negativo del termine.
Interrogarsi su Galgano é come fare esplodere una bomba a frammentazione e, poi, sperare di ricomporla, pezzo per pezzo.
Ogni frammento obbliga ad una analisi approfondita: dimensioni, peso, forma; come per un gigantesco puzzle di tasselli di vita, di cui si ignora l’immagine totale.
Domande senza risposte, risposte senza domande, in un turbinio di riflessioni e pensieri difficilmente lineari e coerenti.
Ogni minimo dettaglio può condurre in mondi paralleli, dove non sempre le soluzioni attingono al quesito di partenza, ma, spesso, ne aprono di nuovi; dove il quotidiano si mescola all’irreale senza più possibilità alcuna di distinzione.
Esiste una storia che i semplici fatti non potranno mai raccontare, che possiamo soltanto supporre, cercare di interpretare ed é proprio nello sforzo speculativo che le intuizioni vivono e si alimentano.
Non esiste aspetto delle vicende galganiane che non obblighi a ripetuti rimandi, a deviazioni continue, a fughe in avanti e balzi all’indietro.
Cercare risposte nel groviglio di interrogativi legati all’eremita toscano significa indagare sui rapporti tra chiesa e impero, tra vescovi e comuni, tra potenti famiglie feudali e i loro vassalli, in un turbinio di personaggi la cui fama é giunta fino ai giorni nostri ammantata di mito e leggenda.
Ogni volta che, in qualche misura, credevo di essere vicino alla soluzione, qualcosa mi attirava su nuovi filoni d’indagine ed ogni piccola scoperta, anche di quelle che certamente fanno sorridere gli esperti, mi appariva come una conquista incredibile e decisiva.
Ho letto e riletto tutti i libri su Galgano, trovando incongruenze di ogni genere: nomi, date, circostanze, avvenimenti, differenti versioni, arricchimenti della leggenda, errori grossolani, a riprova di quanto sia intricata e ancora in buona parte da sbrogliare tutta la questione Galgano.
Nessuno si avventura in proclami di certezza ed ogni analisi assume il sapore dell’indimostrabile.
Non é solo la mancanza di fonti a rendere tutto nebuloso; é il susseguirsi continuo di avvenimenti che modificano gli scenari, che rendono possibili le più disparate ipotesi.
Ecco quindi che, nella letteratura che lo riguarda, dalla più recente alla più antica, Galgano assume sfumature nuove, subisce variazioni letterarie, diviene vittima di mutazioni di ogni genere.
Eppure, nonostante tutto, almeno per quanto mi riguarda, proprio questa caotica incertezza rappresenta uno degli aspetti più affascinanti dell’universo Galgano.
All’interno di questo magma fluttuante riusciamo persino a ritrovare tematiche di grande attualità, celate nelle vicende della sua vita e manifeste ad ogni passo della leggenda.
La quantità di argomenti é talmente evidente da risultare quasi imbarazzante: dal preoccupante fenomeno dell’immigrazione clandestina, di cui l’Italia é bersaglio privilegiato per la sua posizione di avamposto dell’Europa, alla nuova, violenta crisi tra Stati Uniti e mondo islamico, dalle tensioni etniche nei Balcani ai conflitti interreligiosi, non vi é, praticamente alcun avvenimento o questione, che non affondi le sue radici in quel passato, che non trovi riferimenti, motivazioni, in nodi mai risolti o risolti arbitrariamente, provvisoriamente, proditoriamente, negligentemente, superficialmente, demagogicamente, con la violenza e la sopraffazione, con l’abuso del potere, in virtù di una superiore forza.
Pensiamo di essere civili, ma ben poco é cambiato, vince ancora il più forte e sua diviene la ragione: in questo l’uomo moderno non differisce alcunché da quello medievale.
Guerre sante, etniche, economiche, tribali, Galgano costringe a guardare la realtà, impedisce di stare a raccontarsela, obbliga ad aprire gli occhi.
Non per un noioso, inutile lamento, ma, anzi, per il suo superamento, perché nel gesto si ritrovi la voglia di cambiamento, di utopia, di sogno e di speranza.
Tolleranza, dialogo, rispetto, come unici strumenti di progresso.
Le questioni poste dall’analisi su Galgano, invadono ogni campo, dilagano sui grandi temi che apriranno il terzo millennio: valori, etica, nuovi scenari, biotecnologie, realtà virtuale; un mondo in trasformazione vertiginosa, una velocità sconosciuta finora, globalizzazione, egemonie culturali imposte, l’antico sogno di impero universale che rinasce con forme nuove.
Finisce il Novecento e novecento anni fa Galgano lasciava il suo segno.
Un grande, piccolo segno, sperduto nell’incanto senza fine e senza tempo.
Intorno ad esso, nel tempo, sono andati riunendosi tutti i simboli della nostra identità.

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