mercoledì 18 luglio 2007

Parte quinta

Prima che avvenga la sua conversione, Galgano viene condotto in sogno dall’arcangelo Michele al cospetto dei dodici apostoli che, seduti in cerchio all’interno di una rotonda, gli mostrano un libro che egli non può leggere. In questa breve visione onirica sono già contenuti tutti gli elementi che consentono e impongono una lettura fortemente simbolica. I suoi miracoli, quelli che sono narrati nelle testimonianze rese alla commissione che dal 4 al 7 agosto 1185, per volere di papa Lucio III, ascoltò la madre di Galgano, Dionigia e altri diciannove testimoni, sono anch’essi molto significativi per delinearne i tratti agiografici. Galgano libera dalla prigionia, possiede il dono della preveggenza, guarisce i malati ed é beato confessore. Però, persino l’attribuzione di santità é dubbia e controversa. Galgano é santo o beato? O tutti e due? Proprio in questi giorni si sta animando il dibattito sulla santità di Padre Pio. Tavole rotonde, servizi giornalistici, programmi televisivi, ci stanno facendo conoscere le complicate procedure con cui oggi la chiesa cattolica eleva a santi i suoi più significativi rappresentanti, attraverso una graduale salita fino al gradino più alto. Ad ogni ascesa corrisponde un livello di santità ben definito, dapprima venerabile, poi beato, infine santo, segnando ogni passo con precise distinzioni, sempre più rigorose man mano che il processo di canonizzazione é venuto delineandosi nelle forme e procedure che oggi lo regolano. L’elevazione di un personaggio al ruolo e al grado di santo é avvenuta per circa un millennio per acclamazione popolare, ?vox populi? come si é soliti dire, con un controllo relativo e comunque affidato ai vescovi. Poi, spinta dalla necessità di un maggiore controllo ed anche per impedire pericolose autonomie, la chiesa inizia ad introdurre regole e procedure che, a partire dal pontificato di Alessandro III (1159-1181), divengono sempre più complesse e rigide, fino alle più recenti revisioni volute da Paolo VI nel 1969 e da Giovanni Paolo II nel 1983. Durante la sua breve vita eremitica Galgano lascia Monte Siepi nel maggio 1181 per recarsi a Roma dal papa. La leggenda vuole che Galgano cerchi di ottenere dal pontefice l’approvazione della sua regola e l’autorizzazione ad istituire un nuovo ordine monastico. Tutte le biografie sono concordi nell’affermare che Alessandro III risponde negativamente, anche se della richiesta e dell’ipotetica regola galganiana non vi é traccia alcuna, ma in cambio consegna all’eremita alcune reliquie tra cui quelle dei santi Fabiano, Sebastiano e Stefano. Perché proprio queste reliquie e questi santi? Alessandro III ne possedeva così tante da potersene disfare senza problemi? Avevano precise valenze simboliche o erano, semplicemente, quelle più disponibili? Stranamente, ma con Galgano ci siamo abituati, nessun autore si sofferma su questo aspetto e nessuno avverte l’esigenza di indagare a fondo. Fabiano fu papa e martire. Pontificò dal 236 al 250 d.C. Venne eletto, come narra Eusebio, perché, mentre popolo e clero stavano disputando per dare un successore al papa Anteo, una colomba gli volò sul capo traendolo dal disinteresse che lo circondava. Fu allora che tutti si accorsero della sua presenza e, sollevatolo sulle braccia, lo collocarono sulla cattedra vescovile eleggendolo papa. Colpito dalla persecuzione scatenata da Decio, venne decapitato nel gennaio del 250 e successivamente deposto nel cimitero di Callisto. Anche Galgano é stato decapitato quando é avvenuta la dispersione delle sue spoglie ed infatti la reliquia più significativa é proprio la Sacra Testa del santo. Occorre notare che, quando viene scritta la biografia di Galgano, la salma é già stata smembrata e la scelta di Fabiano potrebbe sottolineare proprio questo aspetto. Sebastiano, di origine milanese, fu un ufficiale dell’esercito romano, condannato, sotto Diocleziano, ad essere trafitto dalle frecce dei suoi stessi commilitoni a causa della sua fede cristiana. La matrona Lucina ne avrebbe raccolto il corpo, gettato in una cloaca, e gli avrebbe dato sepoltura sulla via Appia, in un ipogeo divenuto cripta di una basilica successivamente a lui dedicata. Anche Galgano subisce gli scherni e l’ostilità dei suoi compagni che deridono e avversano la sua conversione e in un certo senso lo trafiggono nelle sue aspirazioni. Non sono purtroppo in grado di identificare il terzo santo, Stefano, con certezza, poiché sono almeno una dozzina i santi con questo nome. Esclusi ovviamente quelli posteriori a Galgano, ne restano solo quattro possibili ma, tra loro, i due più probabili sono Stefano Protomartire e Stefano I papa. Le caratteristiche di ognuno mi fanno, però, propendere per il primo, un Giudeo ellenista che ricevette l’Ordinazione e la missione con l’imposizione delle mani da parte degli apostoli. Lapidato fuori Gerusalemme dai Giudei che lo accusavano di aver bestemmiato contro Mosé e il Tempio, venne piamente sepolto e le sue spoglie giacquero ignorate fino a quando, nel 415, il prete Luciano, per divina rivelazione, non le riscoprì a Cafargamala a circa sette ore di cammino da Gerusalemme. Le sue ossa furono trasportate trionfalmente nella chiesa gerosolimitana sul monte Sion, ma molti frammenti ne furono distribuiti a varie chiese della Palestina e dell’Africa. Secondo talune leggende contraddittorie, la salma di Stefano sarebbe stata in seguito trasportata a Costantinopoli, oppure a Roma, nella basilica di san Lorenzo fuori le mura. Certo é che alcune reliquie giunsero in Occidente e diedero origine a molte chiese. Una di queste, donata alla vergine Demetriade da sant’Agostino, grande sostenitore della devozione al santo, giunse a Roma, dove presto sorsero chiese in onore del Protomartire. Nel Medioevo a Roma si contavano ben 35 santuari dedicati al santo. Stefano viene spesso rappresentato con una palma in una mano e una pietra nell’altra, oppure mentre tiene in mano un libro con sopra una pietra. Qui, oltre alla presenza degli Apostoli con identica missione a quella svolta nel caso di Galgano, abbiamo anche una pietra e un libro, due elementi centrali delle vicende galganiane. Il secondo Stefano, invece, pontificò dal 250 al 257 ed il suo nome é legato alla questione della validità del battesimo conferito dagli eretici. Le chiese asiatiche e africane ribattezzavano i ritornati alla chiesa poiché consideravano nullo il battesimo dato dagli eretici, mentre Roma, Antiochia, Alessandria, lo consideravano valido purché conferito secondo le debite forme. Nacque un’accesa controversia tra Cartagine e Roma e papa Stefeano emanò e sostenne con energia la celebre massima ?Nihil innovetur, nisi quod traditum est?. I legami con Galgano in questo secondo caso appaiono molto più sottili e deboli. Indipendentemente dalla scelta tra le varie ipotesi e dalla sua esattezza, che fine hanno fatto reliquie di personaggi così significativi? Sono state forse gestite dai Cistercensi? Sono andate disperse? Nessuno pone l’accento sul loro destino. Erano ancora nell’eremo dopo il trapasso di Galgano? Cosa succede intorno all’eremo dal 1181 al 1183, quando si avviano i lavori di costruzione della Rotonda? Ogni testimonianza che dovrebbe concorrere a far luce sulle vicende di Galgano, scatena invece nuovi dubbi, veri e propri buchi neri, vuoti incolmabili, e si viene trascinati in una gigantesca matrioska senza fine. Ma, se le matrioske a cui siamo abituati racchiudono sempre il medesimo oggetto in dimensioni sempre più ridotte, qui ognuna di loro ne contiene infiniti e tutti differenti gli uni dagli altri. Passava il tempo e l’enigma continuava ad inghiottire buona parte dei miei pensieri ed una considerevole quantità del mio scarso tempo libero. Ho divorato più libri negli ultimi cinque anni di quanti ne avevo mai veduti in tutta la mia vita precedente. Una lettura forzatamente superficiale, veloce per necessità, per fretta di costruire larghe fondamenta su cui crescere. Mi sento ancora così, impreparato e incapace di analisi approfondite, ma amo lo stesso avere opinioni, a cui, comunque, non attribuirei mai valore di verità assoluta e che, invece, confronterei volentieri con chiunque ne avesse voglia, anche solo per amore del dialogo, del confronto, dello scambio di conoscenze. Vorrei che intorno ai misteri dell’eremo venissero studiosi da tutto il mondo, storici dell’arte, delle religioni, della filosofia, archeologi, architetti, astrologi, medievalisti, latinisti, teologi; vorrei studenti, scuole, insegnanti; li vorrei tutti con me a cercare risposte, a sollevare obiezioni, ad avanzare ipotesi, a divagare con Artù, Merlino e Morgana, di cavalieri e santi, Tavole Rotonde e spade, a ricercare, nei tratti sbiaditi, ma straordinari degli affreschi di Lorenzetti, l’idea di Galgano che dovevano avere i committenti del pittore senese verso la metà del Trecento, quando l’artista dipinse la cappella quadrata addossata alla Rotonda. Era il 1345 e solo tre anni dopo, la Grande Peste avrebbe dimezzato la popolazione europea ed ucciso anche Pietro e Ambrogio Lorenzetti. Vorrei riuscire ad identificare, personaggio per personaggio, tutti quelli che appaiono nei dipinti, senza dovermi affidare ai testi che analizzano gli affreschi. Vi troviamo santi, arcangeli, profeti, vescovi, vergini, beati, annunciazioni, paesaggi che avevano lo scopo di illustrare e fissare per sempre l’immagine ufficiale delle vicende galganiane. Di nuovo, stranamente, mentre appare certa l’attribuzione al Lorenzetti di gran parte del ciclo presente nella Rotonda, non esiste alcuna prova o documento che rimandi ad una eventuale committenza. Unico dato sicuro é quello che conduce a Vanni dei Salimbeni che donò un suo podere nei dintorni di Chiusdino, il cui reddito doveva essere utilizzato per costruire accanto alla Rotonda, una cappella fatta di pietre ben squadrate e coperte di pitture. I lavori ebbero inizio intorno al 1341 e, appena la cappella fu terminata, Lorenzetti la coprì di affreschi che, nel tempo, subirono danni incalcolabili, fino alla completa sparizione di alcuni di essi, prima che, in anni recenti, un abile restauro, eseguito a spese della Fondazione Ercole Varzi di Milano, riuscisse a ridare loro buona parte del primitivo splendore, riportando alla luce anche le splendide sinopie di cui, fino ad allora, non si conosceva l’esistenza. Lorenzetti fu libero di agire in assoluta autonomia? Dipinse ciò che realmente voleva o venne condizionato ad una rappresentazione codificata dell’iconografia galganiana? Ci sarebbe materia sufficiente per dispute senza fine, dal momento che quanto rimane degli affreschi e delle sinopie preparatorie é infarcito di simbolismi e di apparenti, vistose contraddizioni. Così evidenti da risultare visibili anche ad un profano, come la Vergine con tre mani, stravaganza che nessuno é in grado di spiegare con certezza e che non regge alla motivazione più frequente di un rifacimento successivo al lavoro del pittore senese. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto lasciare le tre mani, peraltro così evidenti, ammesso anche che avesse dovuto ritoccare o rifare parte dell’affresco? Impossibile anche immaginare che la Vergine originaria sia stata ricoperta e modificata e il tempo abbia lasciato riemergere una mano in più. Già di per se comunque, una simile stranezza incuriosisce, anche e proprio per la centralità dell’affresco che la contiene, ma tutto ciò che riguarda Galgano é confuso e contraddittorio, al punto che l’unico elemento certo e incontrovertibile é rappresentato solo dagli edifici a lui dedicati. Nuovamente si può affermare che soltanto la passione e l’amore di un oscuro architetto senese li ha salvati ad un passo dalla definitiva distruzione, insieme alle splendide rovine del complesso abbaziale. Senza Antonio Canestrelli ed il suo monumentale lavoro, difficilmente potremmo ammirare oggi ciò che rimane del grandioso edificio eretto a partire dal 1218. Lo studioso si recò in visita ai ruderi dell’abbazia nell’agosto del 1887 e, profondamente colpito ?dalla loro maestà e grandezza? decise di intraprendere uno studio di storia e d’arte, mai realizzato prima. Così nacque l’imponente monografia storico-artistica con documenti inediti, che vide le stampe nel 1892 e che servì per annoverare i resti dell’abbazia tra i monumenti nazionali da salvaguardare. Infatti la Giunta Superiore di Belle Arti, esaminato il lavoro di Canestrelli, espresse il seguente parere, in seguito approvato dal Ministero: ?La Giunta superiore di belle arti, presa cognizione tanto della monografia intorno all’abbazia di san Galgano, compilata con ammirevole diligenza dall’arch. Canestrelli, quanto dei disegni che la illustrano, é di parere che gli avanzi di quel monumentale edifizio meritino di essere inclusi nell’elenco generale dei monumenti del Regno, e che si debba provvedere a conservarli con ogni cura?. Senza quest’opera, oggi avremmo ben poco da ammirare, strano destino per un edificio così importante. Quando Lorenzetti avviò la sua opera di pittura della cappella quadrata, l’abbazia era ultimata da tempo ed al massimo del suo splendore. I suoi abati ricoprivano importanti cariche, intervenivano nelle dispute, acquisivano terreni, davano vita a nuovi insediamenti in tutta la Toscana. Appare strano che il grande artista senese potesse lavorare in completa autonomia e dipingere ciò che voleva. Gli affreschi rappresentano quasi certamente quello che si voleva far conoscere del santo. I Cistercensi sono stati maestri in quest’opera di ?cannibalizzazione?, senza volere per questo affermare una loro costante e intenzionale malafede, ma solo per constatare che, anche in moltissimi altri casi, di cui alcuni accertati senz’ombra di dubbio, essi si sono insediati su preesistenti strutture e culti, adattandoli lentamente e inesorabilmente all’immagine ufficiale del loro ordine. Ad osservare con attenzione le fasi della nascita e del primitivo sviluppo dell’ordine si può notare come ogni nuovo insediamento avvenga secondo criteri e regole precise, persino nelle situazioni dove i Cistercensi sono chiamati a sostituire altri ordini monastici caduti in disgrazia o invisi ai loro signori. Non ci troviamo mai dinanzi ad insediamenti casuali o privi di motivazioni ben precise, ma, al contrario, é possibile individuare i criteri guida di questa espansione mirante ad ottenere la copertura totale dei territori cristianizzati. A Monte Siepi, nel frattempo, accadono vicende che, se non fossero avvolte dalla leggenda e, quindi, difficilmente dimostrabili, sarebbero alquanto curiose e stravaganti. Galgano muore nel 1181, nel 1183 vengono avviati i lavori di costruzione della Rotonda, nel 1185, come già ricordato, davanti a tre prelati ed al cardinale vescovo della Sabina e arcivescovo di Magonza, Corrado di Witteksbach, si svolge il processo di canonizzazione e, ancora, non vi é traccia di Cistercensi stabiliti nella zona. Restando alle fonti certe, il primo documento in cui si menziona la presenza del cistercense Bono, che figura però solo come ?rector? o ?presbyter Ecclesiae Sancti Galgani? e non come abate, é quello del 23 aprile 1196 in cui Mateldina dona ai monaci di Monte Siepi terreni di sua proprietà, dopo essere rimasta vedova. Un precedente diploma di Enrico VI, dell’8 marzo 1191, accorda l’immunità ai monaci ?Sancti Galgani a Claravalle, in Tusciam venientes?, prendendoli sotto la sua personale protezione e ponendo sotto la giurisdizione imperiale chiunque entrasse nel monastero. Questo fa supporre che esistesse già un nucleo di monaci provenienti da Chiaravalle (ma quale delle tante: quella milanese, quella della Colomba o addirittura la Clairvaux di san Bernardo?). Possiamo seguire le vicende successive a questa data, grazie ad una serie di documenti contenuti nel Cartulario, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze. E’ un antico cartulario scritto su pergamena, appartenuto all’abbazia di san Galgano e in seguito custodito nel monastero di Cestello, fino alla sua soppressione. In esso sono registrati, in copia autenticata da due notai senesi, i privilegi ottenuti dall’abbazia dall’anno 1191 al 1302. Si tratta di 71 fogli in pergamena, legati tra due piccole assi di legno con impresso il trimonte con la spada infissa, simbolo dell’abbazia. Stranamente però, come al solito, buio pesto sugli anni dal 1185 al 1191, su quelli dal 1191 al 1196 e, poi, fino alla definitiva appartenenza di Galgano e dei luoghi del suo culto all’ordine cistercense, con la figura del primo abate ufficiale, ma guarda che caso, Galgano anch’esso, in carica dal 1197 al 1214. L’ultimo abate, così a puro titolo di curiosità, fu Giovanni Gualberto Fogli nel 1649. In questi 442 anni, gli abati furono in tutto 58. Quando si gioca con i numeri, ogni occasione é quella buona e, nelle vicende galganiane, i numeri sono una presenza costante. Come in alcuni reliquiari dedicati al santo, ad esempio la cosiddetta ?Corona di San Galgano?, conservata nel Museo dell’Opera del duomo di Siena, che presenta una circonferenza di circa 72 cm. (12x6) ed un altezza di 12 cm. Per inciso, ovviamente, nessuno sa, con esattezza, qual’era il suo utilizzo e chi ne fu l’autore, anche se viene ritenuta databile al 1325. Il patrimonio di opere e reliquiari del santo é molto più ricco di quanto si possa pensare, anche se non siamo in presenza di capolavori assoluti dell’arte. Pale, pastorali, sculture, dipinti, bassorilievi, predelle, formelle sono sparsi un po’ ovunque, sia in prestigiosi spazi che in luoghi ignoti ai più. Anche in questo caso si può affermare che non vi sia praticamente nulla di realizzato quando Galgano era in vita, pur trattandosi ugualmente di un patrimonio di considerevole valore artistico e culturale. Ci permette, in qualche misura, di seguire l’evoluzione e la parabola del santo fino ai giorni nostri, dal momento che, ancora in questo secolo, sono stati realizzati dipinti e sculture a lui dedicati. Un culto tanto radicato da sopravvivere anche ad una devastante decadenza come quella che ha causato la perdita quasi totale della sua stessa abbazia, e che, invece, stranamente, nemmeno nei momenti di suo maggior splendore, ha mai varcato i confini della Toscana, rimanendo sempre espressione locale. Eppure, molto del patrimonio artistico dell’abbazia é andato disperso nel tempo in direzioni persino impensabili, come, ad esempio, dev’essere capitato ad una tela della fine del Trecento, eseguita da Mariotto di Nardo tra il 1390 e il 1395 e raffigurante una ?Madonna con Santo Stefano e l’abate Antonio?, che, oggi, é in bella mostra nella sezione italiana dello ?State Museum of Fine Arts of the Republic of Tatarstan?, nella città di Kazan, sulle rive del Volga. Il dipinto proviene dal patrimonio dell’abbazia di San Galgano e mi rammarico di non sapere in quale occasione ed in che modo sia giunto fino nel cuore della Russia. Può darsi che abbia girato per varie abbazie cistercensi, che sia una donazione, oppure addirittura una vendita di qualche abate comandatario. Stranezze di santi, non é certo l’unica e neppure la più originale tra quelle che ci riserva Galgano, ma mi stupisce che una figura così particolare, che un luogo suggestivo come Montesiepi, che la sua leggenda e la sua fama non siano mai divenuti meta così ambita come i grandi centri religiosi del Medioevo; che reliquie come quelle conservate nel monastero, non abbiano mai richiamato moltitudini di fedeli da ogni parte della cristianità per ammirare l’evento miracoloso dell’infissione. Spazio troppo strategico, nel periodo di massimo splendore, per essere stato, inizialmente, luogo di confine e punto nevralgico di controllo del traffico che andava sviluppandosi verso la costa e verso le miniere delle Colline Metallifere, era quasi precipitato nell’oblio, quando tutta la regione era divenuta medicea e l’entusiasmo popolare per pellegrinaggi e crociate non generava più moltitudini in perenne movimento. Invece, quando Galgano scompare, tutto il territorio circostante é interessato da dispute, conflitti, smembramenti; basta seguire, grazie ai pochi, ma illuminanti documenti dell’epoca, le vicende di piccoli borghi come Frosini, Montieri, Gerfalco per comprendere quali e quanti interessi gravitavano su quell’area. Un interessante lavoro di Eugenio Susi ? L’eremita cortese - san Galgano fra mito e storia nell’agiografia toscana del XII secolo?, pubblicato nel 1993 dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, affronta tutto l’affaire Galgano da questo punto di vista, aprendo nuovi fronti per l’interpretazione delle vicende galganiane e nuovi orizzonti all’indagine agiografica. Susi muove dall’assunto di analizzare solo quanto storicamente attestato e pone grande attenzione agli intricati avvenimenti che vedono protagonisti il nascente comune di Volterra, il suo vescovo con i possedimenti che gli appartengono, l’espansionismo senese e, sullo sfondo, lo scontro in atto tra papato e impero, tra nobiltà feudale e città emergenti. In questo studio appaiono evidenti le ragioni della nascita e dello sviluppo dell’insediamento cistercense a Monte Siepi, ma si riduce tutto a semplice conseguenza di questioni meramente materiali e si trascura parte del misticismo misterioso e, per certi versi, più affascinante dell’intera vicenda. E’ evidente che, alla base della storia, esistano precise motivazioni pratiche, ma confinare tutto nelle beghe di potere, per quanto importanti e decisive, non basta a comprendere gli aspetti più nascosti e suggestivi dell’enigma e, soprattutto, non aiuta a capire perché tutto avvenga attraverso un personaggio come Galgano. Chiusdino é un borgo fortificato così importante da ospitare un vicario imperiale durante tutta la seconda metà del XII secolo, eppure in un luogo tutto sommato così piccolo, ancora oggi il comune di Chiusdino racchiude alcune migliaia di anime in tutto, non esiste traccia, documento, testimonianza, dell’esistenza di Galgano Guidotti e nemmeno della sua famiglia di origine. Qui, le supposizioni e le ipotesi si rincorrono, si sovrappongono, si annullano vicendevolmente; qualcuno giunge ad immaginare un’origine senese dei Guidotti, altri la smentiscono categoricamente: dati certi, comunque, nessuno. Esiste un edificio a Chiusdino indicato come la casa natale del Santo. Se ne parla in molti testi recenti dove, stranamente, viene sempre collocato in via Roma, mentre in realtà é situato in via della Cappella, di fronte al civico 10. L a casa a tre piani é stata destinata a diverse necessità oltre a quelle abitative ed é divenuta, nel tempo, anche carcere e caserma dei carabinieri. Al piano terra, una sala di piccole dimensioni con volta ad arco, per lungo tempo utilizzata come stalla, sarebbe stata la cappella della famiglia Guidotti. Qui si possono osservare diverse curiosità e attingere nuove prospettive per l’indagine. Una lapide esterna, posta nel 1900 recita così: ?O.CLUSDINI.CUSTOS.DECUSQUE.GALGANE.MAGNE.TE.CIVES.COMMUNI.SALUTANT. PLAUSU.TU.IPSIS.CONTRA.TOT.ERRORUM.VITTORUMQUE.ILLUVIEN.PRAESENS.ADSIS. A.D. MDCCCC.? L’errore nella data in latino di questa lapide mette una leggera e divertita tenerezza, ma testimonia il legame tra l’eremita e il suo paese natale. All’interno, sotto una volta stellata, un’ altra iscrizione ricorda questo evento ?D.O.M. Questa cappella che ricorda da secoli qui nato nel 1148 Galgano Guidotti insieme patrono chiusdinese la Venerabile Compagnia che dal suo nome si appella volle riaperta al culto a venerazione del Santo il 16 aprile 1900? mentre in un quadretto di circa 35 cm. per 70, appeso alla parete di sinistra, si può leggere: ?Memoria Storica - Questo oratorio dedicato all’Annunciazione di Maria SS. é la Cappella Gentilizia dei Guidotti Conti di Chiusdino nella casa patrizia dove l’anno 1148 dal Conte Guido e dalla Contessa Dionisia nasceva San Galgano. Il giovane patrizio fino all’età di 31 anni condusse una vita da gaudente. L’Arcangelo S. Michele gli apparve più volte e il giovane cambiò vita. Si nascose nel bosco di Montesiepi dove si trova la Pieve di S.Maria. La vita rigida di eremita durò dal decembre 1180 fino al 3 decembre 1181. Il Papa Lucio III l’anno 1185 per i molti miracoli operati per sua intercessione lo dichiarava Santo.? Poco distante si erge la Chiesa di S. Sebastiano, oggi della Venerabile Compagnia di San Galgano che espone sulla facciata una scultura, che non ritengo autentica, raffigurante san Galgano che infigge la spada nella roccia con la data MCCCCLXVI (1456). Ancora nella cappella della casa del Santo, la testimonianza più particolare di tutte, una pietra che, come vuole la tradizione popolare e come é scritto su una lapide che ricorda il giorno in cui il masso é stato trasferito dalla sua sede originaria, é quella su cui ?il cavallo di Galgano Guidotti si inchinava reverente davanti all’Arcangelo S.Michele lasciando impresse le forme delle sue ginocchia - 5 dicembre 1180 - La Compagnia di S.Galgano lo volle qui collocato come caro ricordo - 5 settembre 1958?. Sarà un caso, ma ho notato che in quasi tutti i santuari in cui sarebbe avvenuta l’apparizione dell’Arcangelo Michele é presente sempre qualche impronta lasciata nella pietra, quasi che ciò fosse la conferma effettiva della sua presenza in quel luogo.

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